53. febbre

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Federico chiuse la porta della camera dietro di sé, sospirando e serrando gli occhi. Appoggiò la schiena alla superficie di legno, chiuse gli occhi e sentì la stanchezza inondargli la testa. Si sarebbe potuto anche addormentare lì, in piedi, senza necessariamente spostarsi sul letto, ma sapeva anche che non si sarebbe nemmeno goduto come voleva quella notte. Allo stesso tempo, aveva paura di affrontare Alessia e ammettere le proprie debolezze per quanto riguardava il loro rapporto. Il problema non era lei, assolutamente, né il modo in cui si comportava. Quella sera, con Stephan, non aveva fatto nulla di sbagliato: il biondo sapeva che avrebbe fatto la stessa cosa per qualsiasi altro suo amico, e che aveva passato anni a farlo con Nicola, ma perché pensava che se l'avesse fatto con chiunque altro non gli avrebbe poi dato così fastidio?

Quando riaprì le palpebre, gli ci volle un attimo ad abituare la vista al buio di quella stanza d'albergo. Il letto era fatto, e per un momento il suo cuore si fermò. Se non era lì, dov'era andata? Si era persa? Impossibile, era una delle persone con più senso dell'orientamento che conosceva, non si sarebbe persa nemmeno in una città nuova in cui nessuno parlava la sua lingua. In più, aveva con sé il cellulare, sarebbe stata poco a cercare l'indirizzo e le indicazioni  per raggiungerlo su internet. E allora cos'aveva fatto? Perché non era lì? Il suo cuore riprese a battere molto più velocemente. Cosa le era successo? Sul piccolo terrazzo, esattamente davanti a lui, comparve una punto di luce caldo. Era una sigaretta accesa. Federico tirò un sospiro di sollievo, si tolse la giacca dalle spalle e fece i passi necessari che servivano per raggiungere la porta finestra socchiusa. Scalciò le scarpe, si sfilò i calzini, poi alla aprì e uscì, appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta.

«Da quanto sei qui?» le domandò, sottovoce, senza guardarla. Con la coda degli occhi, però, la vedeva perfettamente. Era avvolta in un accappatoio bianco, che tra l'altro sembrava molto morbido, e i suoi lunghi capelli erano stretti in un turbante con un asciugamano dello stesso colore. Le sue gambe nude erano allungate davanti a lei, aveva i piedi appoggiati sulla parte superiore della balaustra di metallo. Il tessuto spugnoso era scivolato dalle sue cosce e si era infiltrato tra le stesse, coprendo quello che doveva coprire e quasi finendo per toccare per terra.
La luce calda dei lampioni illuminava il suo viso, eppure i suoi occhi brillavano di luce propria come al solito.

«Da quando sono rientrata» rispose, prendendo un'altra boccata di fumo e poi sbuffando in silenzio. Era nervosa, e non voleva nemmeno nasconderlo, né sembrava averne minimamente la forza. Spostò pigramente lo sguardo verso di lui, che nel frattempo aveva intrecciato le braccia al petto, poi tornò ad osservare Roma che dormiva. Piano piano, in lontananza, qualche luce si era accesa: le persone cominciavano a svegliarsi per cominciare una nuova settimana. Sul tavolino basso accanto a lei, il posacenere conteneva più di qualche sigaretta. Alessia avrebbe voluto alzarsi e urlargli tutto quello che pensava in faccia, ma voleva sapere se lui si fosse reso conto di quello che aveva fatto, di come l'aveva fatta sentire.

«Ti rovini così» mormorò il biondo, prendendo il suo piccolo accendino fucsia e facendoselo girare abilmente tra le dita della mano sinistra, osservandolo da vicino. La castana emise un risolino chiaramente infastidito e di scherno, per poi spegnere quello che rimaneva della sigaretta nel posacenere. Aveva cominciato a fumare quando stava con Daniele, poi per un periodo aveva smesso. All'inizio, il suo non era un vizio. Non comprava i pacchetti, non le interessava di averli sempre con sé, ma semplicemente succedeva che ogni tanto le venisse voglia di fumare, più per essere come tutti i suoi amici del tempo che per un reale bisogno. Poi, dopo la morte del ragazzo, c'erano stati dei mesi in cui anche solo l'odore del fumo le faceva venire la nausea. Aveva ricominciato poco prima del diploma. Durante una dei suoi infiniti giorni e notti di studio insieme a Nicola, lui le aveva offerto una sigaretta per allentare un po' la tensione e riuscire ad allontanare il nervosismo e la confusione che era chiaro che avesse in testa. Da quel momento non aveva mai smesso. Suo padre ancora le lanciava un'occhiataccia quando la abbracciava e avvertiva odore di fumo, lei stessa sapeva che non le facesse bene fisicamente, ma c'erano momenti, esattamente come quello che stava vivendo, in cui avrebbe potuto o fumare o urlare. E, in un terrazzino di un albergo nel centro di Roma, alle cinque e mezza di mattina, era sicuramente più pratico fumare che urlare il proprio fastidio ai quattro venti.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora