70. piscina

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Alessia aprì la porta della propria camera velocemente, sistemandosi i pantaloni sulle cosce e scendendo le scale nella maniera più leggera che conoscesse. Era tardi, terribilmente, e nemmeno per colpa sua. Già le dava fastidio non essere in orario, perché si metteva sempre nelle scarpe di chi la doveva aspettare e quindi le veniva automaticamente il nervoso, ma quando questo non dipendeva nemmeno da lei, la frustrazione era, se possibile, doppia. Aveva incastrato perfettamente gli impegni di quella giornata: sveglia alle sette per riuscire a preparare la valigia in tempo, una camminata prima di pranzo per evitare di mangiarsi le mani dal nervoso a causa dell'esame, poi attesa infinita fino al proprio turno, che, con il cognome che aveva, tardava sempre un po' ad arrivare, e, alle cinque in punto, si immaginava seduta sul divano del soggiorno, ad accogliere con un gran sorriso Federico che arrivava a prenderla per andare all'aeroporto. E invece, ogni suo piano era andato all'aria già quando la sveglia non era riuscita a farle aprire gli occhi, e sua madre l'aveva scossa violentemente per farla svegliare il più velocemente possibile per evitare di arrivare tardi a lavoro. Aveva bevuto un caffè velocemente, poi aveva accatastato quanti più vestiti puliti riusciva a trovare sul pavimento, perché con il poco tempo che aveva non contava più la qualità, ma la quantità, e in quella montagna di roba avrebbe sicuramente trovato qualcosa. A mezzogiorno, quando ormai faceva troppo caldo per uscire a fare una passeggiata, il suo stomaco era serrato e le mani le tremavano. Una tazza di tisana fredda e qualche sigaretta avevano rattoppato come potevano la situazione, e quasi immediatamente si era trovata davanti al computer ad aspettare che chiamassero il suo nome, rispondendo sottovoce alle domande che facevano agli altri e muovendo nervosamente le dita sulla scrivania.
Solo quando si era alzata da quella sedia che era diventata scomodissima e aveva preso in mano il telefono, aveva trovato il messaggio che le aveva mandato Federico venti minuti prima, in cui le diceva che era fuori da casa sua e che la aspettava. Si era sentita terribilmente in colpa e aveva afferrato i primi vestiti che le capitavano sotto mano, ossia un paio di pantaloncini di jeans e un top color carne, per vestirsi il più velocemente possibile e raggiungerlo.
Certo, non si aspettava la scena che poi si era trovata davanti.
In salotto, davanti a due bicchieri di succo, sua madre e il biondo discorrevano tranquillamente, come due amici di vecchia data. In quell'esatto momento, Federico stava sgranando gli occhi, chiaramente sorpreso, per poi perdersi in una risata leggera e impalpabile. Chissà che storie assurde gli stava raccontando sua madre, e chissà perché si sentiva così simpatica e disponibile quando c'era lui intorno.
Qualche volta le aveva chiesto come mai non avesse un compagno fisso, come mai, se tutti i suoi amici stavano cominciando a sistemarsi seriamente con un matrimonio e magari dei figli, lei invece rimaneva da sola, senza nemmeno pensare a mettersi una fede e guardare la propria pancia mentre cresce. Lei le aveva sempre risposto che c'era tempo, che era sbagliato attribuirle tutti quei desideri solo perché era donna e che comunque la sua carriera veniva sempre prima di tutto. Non aveva mai pensato, però, che sua madre potesse semplicemente essere preoccupata per lei, e in quel momento il dubbio le venne. Guardava Federico come se gli fosse grata per essere lì, per passare del tempo con sua figlia, e sembrava comunque non trovare le parole per esprimere chiaramente tutto ciò.

«Scusa se sono tardi, so che saremmo dovuti partire mezz'ora fa ma i professori erano tardissimo e ho finito ora letteralmente» Alessia interruppe quella loro chiacchierata, finendo di scendere le scale e aprendo il viso in un sorriso tirato, per poi allargare leggermente le braccia e scrollare le spalle, sinceramente dispiaciuta. Il rapporto che aveva sempre avuto con sua madre, specialmente dopo il divorzio e l'incidente, era stato minimo, di convivenza, ma vederla parlare così tranquillamente con Federico, a cui in quel momento non era capace di affibbiare un ruolo preciso nella propria vita, ma che era consapevole fosse una persona molto rilevante, le faceva un certo effetto. Lui sorrideva, tranquillo, rilassato, e lei parlava come se davanti a lei ci fosse l'amico di una vita, ancora vestita com'era andata al lavoro, con un tailleur elegante di lino dai colori chiari e i capelli, di un rosso intenso, che scendevano morbidì fino a giusto sotto la mandibola, incorniciando il suo viso paffuto ma non per questo più simpatico.
Lo sguardo del biondo scivolò tranquillamente, senza alcuna fretta, verso di lei, cercando di metabolizzare le sue parole e come non l'avesse nemmeno salutato. Associare a quella donna intraprendente che conosceva bene la ragazzina che, a tredici anni, aveva chiesto a uno sceriffo cosa avesse nella cintura, troppo spaventata dalla fodera della sua pistola, come gli aveva appena raccontato sua madre, gli venne naturale. Associarla, invece, a quella che solo il giorno prima piangeva tra le sue braccia e aveva appena avuto un attacco di panico a causa della tensione per l'esame che avrebbe dovuto sostenere e, insieme, le aspettative che tutta la sua famiglia e i suoi amici vomitavano su di lei, era decisamente più difficile.
Lo affascinava come potesse essere entrambe le persone, contemporaneamente. La sua debolezza, la fragilità dell'essere messa sotto una lente d'ingrandimento da tutti, erano intrinseche nella sua supponenza, nel suo tono saccente, nell'incredibile arroganza che la rendeva sempre un gradino più in alto di chiunque altro.
Il suo viso pulito e abbronzato si aprì in un sorriso.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora