15. stanza 402

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Quel giorno la corsa era stata più lunga del solito. Le gambe mi facevano male, tutti i muscoli mi tiravano, ma mi ero trascinata per metà Firenze nella speranza di svuotare la testa e di arrivare all'ora di cena con una stanchezza tale da riuscire a dormire nonostante tutta l'adrenalina e l'ansia che mi montava dentro e mi faceva agitare da almeno qualche giorno.
Il momento era arrivato, stavo veramente per laurearmi e non sapevo come sentirmi a riguardo.
Sarei stata la prima tra i miei amici a farlo e anche questo mi metteva abbastanza in soggezione. Di lauree ne avevo viste ma sapevo che sarebbe stato diverso. Non sapevo cosa fare, né come mi sarei sentita, e non avevo alcun modo per prevederlo.

«Sono a casa» sospirai, togliendomi le cuffie e lasciandole sul mobile d'ingresso con il mio telefono. Ero veramente stanchissima e non sentivo nemmeno di avere abbastanza fiato da parlare ad alta voce. Mi abbassai per slacciarmi le scarpe e quando mi rialzai chiusi gli occhi, sentendo le gambe dolenti. Non persi nemmeno tempo a guardarmi in giro, mi diressi direttamente nella mia stanza. Volevo solamente farmi una doccia e infilarmi nel letto, per poi dormire fino al giorno dopo, ma evidentemente non doveva andare così.

Aprii la porta soprappensiero e mi diressi direttamente verso la sedia della scrivania, presi il pigiama e uscii dalla mia stanza. Andai in bagno, ossia nella stanza accanto a quella di Nicola, e appoggiai il pigiama, per poi far cominciare a scendere l'acqua. Sospirai e mi guardai allo specchio. Il mio viso era tutto rosso e gli occhi mi bruciavano dalla stanchezza accumulata nei giorni appena passati. Li chiusi un attimo. Il rumore dell'acqua che scorreva era sempre stato una delle poche cose in grado di calmarmi e di rilassarmi, qualsiasi fosse la situazione. Probabilmente stavo per addormentarmi quando sentii un rumore strano; era simile a un gemito e per un attimo pensai di essermelo immaginato, finché non ne sentii un altro.

Uscii dal bagno e, lentamente, aprii la porta della camera di Nicola, ossia l'unica stanza che non avrebbe dovuto essere vuota in quella casa al momento. Quando fu abbastanza aperta da vedere cosa ci fosse dentro, mi resi conto che era anche fin troppo piena.

«Oh mio dio» esclamai, questa volta ad alta voce. Entrambi i ragazzi nel letto si fermarono e si girarono verso di me. Chiaramente, c'era Nicola ma c'era anche Anna, sotto di lui. Chiusi la porta con uno scatto, con una forza che non sapevo di avere ancora, poi mi precipitai in bagno, feci in modo di fermare il getto della doccia. Volevo solo scappare da quella casa e il più lontano possibile da Firenze, piangere e anche urlare.

«Essia» Nicola mi corse dietro, quasi rincorrendomi per la casa mentre io ero già alla porta, pronta a uscire e ad andare non sapevo nemmeno io dove, bastava che fosse lontano da quella situazione tremenda. Lo guardai di sfuggita e vidi che si infilato i boxer in fretta e furia, aveva le labbra gonfie e i capelli più disordinati del solito.

«Non chiamarmi così» replicai, sputando veleno da ogni poro. Presi le mie chiavi, il telefono e le cuffie, cercai di chiudere la porta dietro di me, non aspettando nemmeno una risposta, ma lui mise un piede in mezzo, tenendo la porta ancora un po' aperta «Da quanto tempo va avanti?» gli chiesi, senza un minimo di comprensione nel mio tono di voce, solo tanta delusione e tristezza.

«Quattro mesi» ammise il ragazzo, per poi abbassare lo sguardo con fare colpevole. Io restai ancora un attimo lì, giusto il tempo di vedere Anna comparire dalla camera del biondino. Le rivolsi un minimo sguardo sprezzante, poi mi girai senza dire nulla e cominciai a scendere le scale di fretta.

Volevo piangere e sfogarmi, ero triste, ma allo stesso tempo ero talmente stanca da sentire gli occhi completamente secchi, come se avessi passato l'intera giornata davanti a uno schermo.
Uscii dal condominio e mi girai filai di nuovo le cuffie nelle orecchie, cercando di sotterrare i miei pensieri con la musica.
Ero da sola, stavo camminando in giro per Firenze, sudata, vestita solo con un paio di leggings e un reggiseno sportivo. Non potevo sicuramente andare tanto lontano, ma di andare a casa non se ne parlava minimamente.
Sbloccai il telefono e chiamai il primo numero che trovai, quello di Marco, ma lui non rispose e mi arrivò da parte sua uno di quei messaggi preconfezionati. Allora, decisi di ripiegare su mio fratello, che sapevo essere a Milano ma che almeno probabilmente mi avrebbe aiutato a trovare una soluzione. Lui non mi fece aspettare, anzi, mi rispose quasi immediatamente.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora