Capitolo XVIII - «Non Era Un Angelo, Ma Forse Un Diavolo!»*

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Mercoledì


Non feci neanche in tempo a chiudere la porta che il mio smartphone prese a squillare incessantemente. Tirai fuori l'aggeggio in questione dalla tasca della giacca e risposi al telefono, perplesso. Una voce ricolma di rabbia mi attaccò seduta stante.

«Che razza di storia è mai questa, eh? Mi spieghi cosa cazzo stai facendo? E cosa cazzo ha combinato il tuo adorato padre? Rispondi, perdio!»

Sbarrai gli occhi, la bocca spalancata in un'espressione di pura sorpresa. A cosa dovevo gli attacchi gratuiti del mio superiore? «Non capisco cosa intendi. Io non ho fatto proprio un bel niente!» sbottai, infastidito e confuso allo stesso tempo.

«Ecco, appunto! Tu non hai fatto proprio un bel niente! Ma tuo padre sì!» rilanciò l'altro, più arrabbiato che mai.

Aggrottai la fronte. «Che cosa significa tutto questo? Ti giuro che non ne so niente, io non—»

«Vorrei saperlo anch'io, cosa significa! Ah, tu non sai niente? Allora leggiti pure l'articolo uscito sul Messaggero, poi vediamo se hai il coraggio di dire la stessa cosa!»

Mi riattaccò il telefono in faccia senza nemmeno darmi l'opportunità di spiegarmi. Non avevo fatto nulla di male, porca miseria! E nemmeno mio padre, ne ero più che sicuro. Per un momento, quasi pensai di fare dietrofront e tornare a casa di mia madre, alla spasmodica ricerca di una qualsiasi spiegazione.
Scossi la testa. Lei non poteva saperne niente, senza contare che non avevo nemmeno comprato il giornale del mattino. Quando Christian mi aveva chiamato ero talmente distrutto, talmente fuori dal mondo, da essermene dimenticato. Perché di solito non mancavo mai, e sottolineo mai, di lanciare un'occhiata sommaria agli articoli freschi di stampa.

Mi guardai attorno, ancora sbigottito dal tono di puro disprezzo rifilatomi dal mio capo che, segretamente, avevo sempre considerato come un secondo padre. Un altro suono familiare mi distolse dalle mie riflessioni. Guardai il display del cellulare.
Ehi, amico, ho appena letto l'articolo uscito sul giornale... che razza di storia è mai questa?

Il mio cuore prese a battere fortissimo, in preda a un'agitazione senza precedenti. Christian, in quell'SMS, non aveva scritto un articolo. Bensì L'articolo.
Rimisi il telefono in tasca. Cosa poteva starci sulle prime pagine dei giornali italiani? Corsi a perdifiato verso la prima edicola disponibile, senza voltarmi indietro. Dovevo assolutamente scoprire cosa stesse succedendo. Scrutai l'orologio che avevo al polso, quindi proseguii la mia corsa. Tutto, attorno a me, assunse contorni sfumati e indistinti, tant'è che finii addirittura addosso a un paio di passanti, che non mancarono di rifilarmi un'occhiata in tralice. Un'occhiata nella quale, però, si nascondeva ben più che un semplice e puro fastidio. C'era dell'altro, in quegli sguardi. Erano sguardi carichi di una massiccia dose di sufficienza che mi fece tremare. Anche loro, sapevano. Sapevano dell'esistenza di un qualcosa che, io per primo, ignoravo. E che avrei scoperto di lì a poco. 

Tornai a correre cercando di focalizzarmi sulla strada come un cavallo a cui erano stati messi i paraocchi. Ai lati della carreggiata, molti dei passanti avevano preso a gridare con forza un impostore! che per poco non mi fece inciampare sulle mie stesse scarpe. Ero molto conosciuto in tutta la Toscana, specialmente in quel di Arezzo, la mia città di origine. D'altronde, aver praticato per anni il mestiere di giornalista mi aveva portato in molte parti del paese, ed era proprio per questo che la maggioranza degli abitanti mi riconosceva. Mio padre, poi, era un marchio di fabbrica, molti dei suoi articoli avevano fatto la storia del giornalismo.
Continuai a correre, a perdifiato. Non avevo tempo di guardarmi intorno, non avevo tempo di ascoltare quelle voci.

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