Capitolo III - Sospesi Nell'incredibile

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Non si prospettava una grandiosa mattinata. Malgrado dalle imposte fosse penetrato un barlume di sole, Gilberto era di pessimo umore. L'ennesima notte in bianco non l'aveva certamente aiutato ad alzarsi pimpante e pieno di allegria. Ma d'altronde, era ormai da mesi che un grosso macigno gli abbrancava il cuore e lo stomaco. Gilberto sospirò. Si sentiva affranto, deluso e altrettanto svilito. E conosceva alla perfezione la causa del suo malessere. A stento, trattenne qualche lacrima, che minacciava di rovinare quella perfetta immagine di sé che tanto aveva faticato a costruirsi negli anni; l'immagine di un uomo felice e pienamente soddisfatto della propria vita. Una condizione che non gli calzava più. Strizzò gli occhi. Anche quella notte, l'aveva passata ad arrovellarsi il cervello e a domandarsi che cosa dovesse mai fare perché le cose cambiassero. Perché entrambi cambiassero. Lo sguardo gli cadde sul lavabo. Alcune volte, sarebbe sprofondato volentieri dentro un vortice infinito e senza via d'uscita, così non sarebbe stato costretto ad affrontare la realtà. Accese la luce, prese tra le mani la cravatta posata sul mobiletto di fianco e se la strinse attorno al collo, cercando, nel frattempo, di scontrarsi il meno possibile con il suo volto funereo davanti allo specchio – che non rifletteva altro che un'amara e scomoda verità. All'improvviso, smise di armeggiare con le sue mani e si perse, per un breve – ma fatale – istante, nell'esaminare la serie di profumi e creme per il corpo di Megan, posate con cura ai lati del lavandino. Creme per il corpo. Il suo corpo. Strabuzzò gli occhi, come se le stesse vedendo per la prima volta. Chissà come sarebbe stato se...

Gilberto sbatté la cravatta a terra. Si coprì il volto con le mani. Devo smetterla. La devo smettere, perdio! Tornò con gli occhi sullo specchio; erano lucidi. Deglutì. Di nuovo quella voce. Quella fottuta vocina interiore che si divertiva a contraddire e, al tempo stesso, alimentare tutti i suoi propositi. Tutti i suoi desideri. Desideri con annesse fantasie. Strinse un barattolo di crema al burro di karité e quasi gli scoppiò tra le mani. Aveva collezionato talmente tante immagini nella sua testa, che sbarazzarsene del tutto sarebbe stata un'impresa impossibile. Avanti, resisti. Non puoi arrenderti così. Questa volta, la vocina lo consolava. Lo stava pregando di provarci ancora, di andare incontro alle esigenze dell'altra persona chiamando a sé i buoni sentimenti. E quella persona, non era certo una qualunque. Gilberto ritornò a guardarsi. Accennò un sorriso distratto e, questa volta, si sforzò di vedere lo specchio come un amico. D'istinto, si decise a lasciar perdere la cravatta, quindi sganciò i primi due bottoncini della camicia a quadri e sistemò il colletto. Così va meglio, si disse. Sparì oltre la porta del bagno e, prese le chiavi della macchina, si approntò per uscire.


Il traffico sulle vie di Firenze era sempre cosa sgradita, e a Gilberto saliva il nervoso ogni singola volta che percorreva lo Stradario della città. In particolar modo, quando si ritrovava a svoltare per il Viale Filippo Strozzi, non resisteva all'impulso di accendersi una sigaretta. Non era sua abitudine fumare costantemente, ma alle volte non poteva proprio farne a meno. Megan gli aveva spesso rimproverato quel vizietto, ma l'uomo non riusciva mai a concedersi la promessa di smettere del tutto. Se soltanto avesse saputo che lei, seppur indirettamente, lo spingeva ad abbandonarsi con maggiore bramosia tra le braccia del tabacco! Gilberto storse la bocca, la sigaretta ancora spenta tenuta nella mano sinistra, tra pollice e indice. Aprì leggermente il finestrino della sua BMW Serie 3 e, con uno sforzo estremo, la gettò senza pensarci. Bravo coglione! – si redarguì, pentendosi immediatamente di quel gesto.

Esaminò di sfuggita la confezione di Marlboro. Solo in quel momento, si rese conto che era vuota. «Ecco cosa succede a dare retta alla propria donna», si lamentò, a mezza voce, mentre stringeva il pugno sinistro e distruggeva la scatolina di cartone. A quella constatazione, provò una sensazione di sollievo mista a rabbia; o forse si trattava di apprensione. Che cos'avrebbe raccontato ai suoi colleghi, questa volta? Quale storiella si sarebbe inventato per intrattenerli? Fumare una sigaretta in quei momenti lo avrebbe senz'altro aiutato ad allentare la tensione e a inventarsi la più rocambolesca delle situazioni – la prorompente malizia di qualche suo vecchio compagno di università, che adesso lavorava insieme a lui, non smetteva mai di sorprenderlo –, anche se poi, come suo solito, non avrebbe detto nulla di che, dato che lui, a differenza loro, si vergognava un poco a raccontare le sue cose; ma d'altra parte, esimersi totalmente dal farlo non lo aiutava, per così dire, a pavoneggiarsi. A fargli credere che tutto andasse a gonfie vele. Perché quei citrulli non potevano avere ragione. Non dovevano averla.

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