Capitolo XVII - «Non Dobbiamo Star Soli (Mai)!»*

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Mercoledì


Il pomeriggio era ormai giunto al termine: uno splendido tramonto dalle tinte rossastre e violacee contornava lo scenario mozzafiato che avevo dinanzi; uno scenario impreziosito dagli eleganti profili delle montagne verdi che si stagliavano lassù nel cielo segnando un preciso confine tra cielo e terra. Un confine che, a una più attenta visione, si mescolava con tutto il resto, creando un affascinante contrasto di colori. Cosa mi aspettasse oltre quell'orizzonte, però, era tuttora un'incognita.
Aver indugiato per ore ai piedi di quella lapide mi aveva regalato un momento costellato da un sentore di tranquillità accompagnato dal senso, ben più familiare, di rassegnazione al mio male di vivere.

D'un tratto, però, mi era sembrato di percepire un distinto rumore di passi. Sulle prime non mi ero voltato, ma quando una profonda voce maschile aveva sussurrato un «Sembra veramente un angelo, nevvero?» avevo sbarrato gli occhi e, risvegliandomi dallo stoico stato di trance in cui ero caduto, avevo prontamente girato il capo verso di lui.

Dovetti ammetterlo: l'aspetto di quel tizio aveva in sé un qualcosa di particolare. Le mani grandi, assolutamente sproporzionate rispetto al corpo, minuto e affusolato, il naso sporgente e la bocca sottile. I folti capelli biondi – di un biondo platino, per giunta – corredati da una frangetta sbarazzina e scarmigliata che contrastava con l'eleganza decantata dal completo di colore bianco che fasciava alla perfezione la sua mingherlina figura. Gli occhi di quel tipo erano azzurri, ma di un azzurro di un'intensità talmente tenue che, a tratti, sembrava quasi sfociare nel bianco, confondendosi con la sclera.

Se non lo avessi avuto dinanzi a me, lo avrei tacciato come una specie di extraterrestre, o magari... come un angelo caduto dal cielo. Effettivamente, nella sua imperfezione, poteva davvero sembrare una creatura divina. Peccato che non credessi più a un bel niente... tantomeno nel Paradiso. Eppure... quello strano essere emanava una luce speciale. E me ne accorsi nell'istante in cui la sua mano sinistra sgusciò da dentro la tasca dei pantaloni. Mi era sembrato di vedere un lampo di luce, in quel momento. O forse, stavo soltanto delirando, e la mia mente si stava divertendo a giocarmi l'ennesimo tiro mancino.

Non gli risposi. In quel frangente rimasi a fissarlo nella sua interezza, come ipnotizzato. Non riuscivo a discostare gli occhi da lui. Poi, come per magia, riflettei su quel nevvero. Sembra davvero un angelo, nevvero? – aveva detto, con un ambiguo sorrisetto sulle labbra.

Da dove era saltato fuori quello strano uomo? Dalla Divina Commedia? Dal Canzoniere di Petrarca? Oppure... da un pregiato manoscritto dell'Ottocento?

«Lei era il mio angelo», rimarcai, quando mi decisi a rompere il silenzio.

L'uomo scosse la testa. «Lei lo è ancora. È il tuo angelo custode. E se fosse qui, sai cosa ti direbbe?»

Non arricciai il naso di fronte al fatto che mi avesse appena dato del tu. «Cosa?» mi ritrovai a sussurrare, con voce flebile.

Lei ti direbbe: «Ama, Malcom! Non arrenderti alla solitudine! Non lasciarti sprofondare negli abissi delle tenebre, ma torna ad amare! Ama intensamente, ricerca perennemente quell'ideale di perfezione nella donna che tu sai, e se ti accorgi di averlo ritrovato...» Gli occhi dell'uomo parvero brillare di una luce nuova. «Inseguilo! Devi essere felice, perché non c'è cosa più bella che essere vivi!»

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