Chapter 39

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Un paio di respiri.
Tre giorni.
Dodici telefonate dalla reception.
Trentaquattro pezzi di vetro.
Lacrime infinite.

Sono passati tre giorni; tre giorni che sembravano non avere mai una fine.
Tre giorni nei quali ho ricevuto dodici telefonate dalla reception, per assicurarsi che stessi bene, se fossi ancora viva.
Ogni giorno ho contato circa una ventina di volte, a voce alta, come il più disturbato dei pazzi, quanti fossero i pezzi di vetro, ancora lì, ancora terra: ancora distrutti.
Sono trentaquattro ma chissà, magari domani potranno diventare trentacinque o trentatré, magari soltanto venti.

Forse sto davvero diventando pazza.

O forse no.

Non lo so.

Non so più niente.

Non riesco più a sentire niente.

Da questa mattina non riesco neanche più ad udire gli urli emessi dai paparazzi, appostati giorno e notte, fuori da questo imponente albergo a cinque stelle.

Non se ne sono mai andati.

Forse sto peggiorando; forse mi sono soltanto abituata alla loro presenza.
L'unica cosa che odo ancora troppo chiaramente sono le sue parole.

"Tu sei stata soltanto un passatempo. "

"Non sei nessuno.

"È stato solo sesso. "

"Pensavi davvero di esser diventata importante per me? "

"Tu non sei abbastanza per me. "

"Tu non fai parte di questo mondo. "

"Tu non sei adatta. "

"Se solo avessi dato ascolto a tuo padre... "

"Che cosa hai da offrirmi tu? "

"Svegliati. "

"Addio, Camille. "

Sono stanca.

Sento le palpebre pesanti, la testa che mi duole; mi sento debole.

So di aver bisogno di dormire eppure, ogni qualvolta provi a chiudere gli occhi, quelle frasi tornano a ripetersi, rimbombando, nella mia testa.

La sua voce fa eco lì dentro.

L'unica cosa che percepisco ancora troppo chiaramente sono i colpi sparati dalla sua pistola. Non ho neanche minimamente provato ad estrarre i proiettili: sono troppi, posizionati troppo a fondo.

Sapevo che non sarei mai riuscita neanche ad afferrarli, perché provare allora?

Ho fissato per tre interi giorni la parete bianca, posizionata difronte al mio letto.
Ho proiettato su quel muro candido la scena, osservandomi nel dettaglio mentre venivo distrutta, fino al momento in cui se n'è andato via da me, sbattendosi la porta alle spalle: fino alla conclusione.
Poi ho riprodotto la diapositiva ancora una volta, e poi ancora, e poi ancora, e dopo, ancora una volta.

Ho notato come abbia astutamente e meschinamente usato le mie debolezze, contro di me. Ha tirato in ballo la mia poca autostima, il mio non sentirmi mai all'altezza, mio padre, ciò che c'è stato tra noi.

Mi ha sbattuto in faccia il mio passato, sputando sul mio presente.

La cosa peggiore è che ha ragione.
Come ho potuto anche soltanto pensare di essere diventata importante per lui?
Come ho potuto pensare di poter essere abbastanza per lui, all'altezza?
Come ho fatto a non capire subito di non esser affatto adatta per il suo mondo?
Che cosa potrei mai offrigli io?
Perché non mi sono svegliata in tempo, rendendomi conto di tutto ciò?
Sono soltanto una sciocca.

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