80. MI CHIAMO KILLIAN CARTER E SONO TUO FIGLIO

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KILLIAN


L'atmosfera a tavola è tesa.

E la scopata avuta con la mia fidanzata sotto la doccia, non ha alleggerito di molto la situazione. Mi sento a disagio e questo non è il tipo di tensione che si dissolve con una battuta ben piazzata o un brindisi forzato. È una di quelle silenziosa, quasi rispettosa: un equilibrio fragile, costruito su parole non dette e troppi pensieri trattenuti.

Mary si sforza di colmare i vuoti con sorrisi gentili e frasi leggere sul clima, sul giardino, sulle piantine aromatiche che ha piantato nel suo orto. Mentre Bea cerca di fare il possibile con qualche commento qua e là.

È brava a fare da ponte. A trovare quel punto sicuro, dove anche due sponde opposte riescono a toccarsi. Ma nemmeno lei può cancellare la realtà di quello che siamo: due uomini seduti l'uno di fronte all'altro, con lo stesso sangue e una distanza da colmare.

«Ti va un po' di salsa?» Mi chiede Mary, notando forse che a malapena ho toccato l'arrosto di vitello.

Se non fosse che è uno dei miei piatti preferiti, in un altra circostanza l'avrei divorato. Ma oggi non ho particolare appetito.

Potrei ricondurlo alla motivazione di questa cena e a tutto quello che è successo tre mesi fa. Eppure, qualcosa è cambiato e loro lo sanno.

Non è più la classica cena a casa dei Dunn, se non quella a casa di mio padre ora.

«No, grazie», rispondo infine con voce bassa.

Bea si sgrana la voce per tentare di portare l'attenzione su altro. Ma Mary non demorde e domanda: «Larry mi ha detto che vi state allenando duramente per la finale del Frozen Four.»

Mi stringo con una mano la coscia, mentre con l'altra, strascino con la forchetta la purea di patate vicino ai piselli.

Mi schiarisco la gola, intanto che alzo la testa per rispondere un semplice: «Sì, sarà dura.»

Rilasso la presa sulla coscia e sorrido gentile a Mary, per poi riportare l'attenzione sul piatto.

Questo finché i miei occhi non si alzano sul coach che sta riempiendo il mio bicchiere con dell'acqua, fintantoché dice: «Hai paura?»

Aggrotto leggermente la fronte confuso: «No.»

E nonostante vorrei domandargli perché mi abbia chiesto una cosa del genere, preferisco lasciare che si volti verso Bea, per riempire anche a lei il bicchiere. «Non è facile per me parlarti senza sentire il peso di quello che ho fatto», prende a dire.

«Grazie», dice la mia ragazza, facendo scorrere lo sguardo tra lui e me.

«Prego», fa Dunn, poi posando la caraffa sul tavolo e restando fermo con i suoi occhi scuri su di me. «Ti chiederò scusa tutte le volte che riterrai opportuno, se questo servirà a farmi perdonare», continua.

Resto fermo, in silenzio, con gli occhi puntati nei suoi. So quanto gli stia costando dire queste parole di fronte ad altre due persone. L'ho conosciuto come l'uomo forte che a stento sapeva cosa fosse l'imbarazzo. Quindi so che genere di persona ho di fronte a me, perché in parte anche io sono come lui.

«Aiuto Mary a sparecchiare», avvisa subito la mia ragazza, alzandosi dalla sedia, seguita dalla moglie del coach.

Annuisco e la seguo con lo sguardo, mentre sparisce in cucina con il piatto tra le mani, per poi girarmi di nuovo verso mio padre.

«Smettila di chiedermi scusa», riesco finalmente a dirgli in tono serio. «Ti fa sembrare fragile ai miei occhi.» E io voglio che rimanga l'uomo che è sempre stato.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 3 days ago ⏰

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