Capitolo 29.

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Era passato un quarto d'ora da quando era uscito dal ristorante, da solo e incazzato nero. Probabilmente se fosse rimasto altri dieci minuti lì dentro, avrebbe rovesciato il piatto di ostriche in testa alla madre, o l'avrebbe ricoperta d'insulti. O forse, entrambe.

Anche se poteva sembrare, non la odiava davvero. Per un figlio era quasi impossibile farlo. Tuttavia aveva una bassa tolleranza nei suoi confronti: Cornelia non gli aveva mai dimostrato un grande senso di affetto materno durante la sua infanzia, soprattutto perché per lei la parola "affetto" equivaleva a "comprare la felicità". Senza dubbio, dal punto di vista materiale, i genitori non gli avevano fatto mancare nulla. Ma quello su cui entrambi si erano sbagliati, era proprio alla base di tutto: un abbraccio, una storia raccontata prima di dormire, un interessamento sincero alla sua vita e ai suoi desideri.

Per i suoi genitori era sempre esistita solo la carriera. Ogni azione, ogni conoscenza, ogni singola mossa era finalizzata al lavoro e a un migliore rendimento rapportato a un maggiore guadagno. Mattia credeva che anche lui stesso fosse stato calcolato come una pedina degli scacchi. La sua strada era spianata, il suo futuro già deciso. Ogni scelta che faceva doveva essere approvata e supervisionata dai genitori, perché lui era l'unico erede delle loro compagnie e quindi non potevano permettersi che mandasse tutto in fumo per qualche errore non calcolato.

Per causa loro, lui non era mai stato in grado di provare sentimenti sinceri per nessuno: non aveva mai voluto bene veramente a un amico; non si era mai innamorato di una ragazza; non si era mai lasciato andare sul serio. E non perché non avesse voluto, ma perché non gli era stato mai permesso. Esporre i propri sentimenti agli altri voleva dire mostrarsi debole. E le debolezze, in quella società, erano i punti di forza di cui si servivano i nemici per buttarti giù. Così la pensavano i suoi genitori e così era stato fino a quel momento per lui.

Almeno fin quando non era apparsa Nadia. Forse lei era stata l'unica persona che fosse riuscita a scuoterlo da quella sorta di sonno emotivo durato per anni.

Mentre camminava lungo il marciapiede con le mani in tasca, si chiese cosa stesse facendo in quel momento la ragazza dagli occhi color smeraldo. Probabilmente era uscita già da scuola, dato che era l'una passata.

D'un tratto di fermò, come se fosse tornato con la mente alla realtà solo in quel momento, e aggrottò le sopracciglia con fare confuso. Non se n'era nemmeno accorto, ma aveva camminato nella direzione opposta a quella di casa sua, avvicinandosi sempre di più verso il Machiavelli. Rimase fermo sul posto picchiettando con impazienza il piede a terra, indeciso se tornare indietro a piedi o chiamare un taxi verso casa. Poi però un puntino biondo sole dall'altra parte della strada attirò la sua attenzione. Si portò una mano sulla fronte per coprirsi gli occhi dal sole e mise a fuoco l'obiettivo: Nadia era ferma sul ciglio del marciapiede insieme ad altre persone, in attesa che scattasse il semaforo verde per i pedoni.

Mattia scosse la testa, come a verificare che la ragazza non fosse solo una visione. Ma lei era ancora lì, avvinghiata nella sua stessa giacca a vento verde, con i capelli mossi raccolti in una coda di cavallo disordinata e lo sguardo perso in chissà quali pensieri. Non sembrava allegra. Il ragazzo decise di aspettarla dall'altro lato del marciapiede, con le braccia conserte e lo sguardo disinteressato. Quando Nadia gli passò accanto, non si accorse di lui e continuò a camminare verso casa, tra uno slalom e l'altro in mezzo ai passanti.

Mattia si staccò dal muretto su cui si era poggiato e la seguì, fermandosi al suo fianco. «Vai di fretta?»

Lei sussultò per la sorpresa e si coprì la bocca con le mani. «Oddio, Mattia, mi hai fatto quasi prendere un accidente! Ma da dove spunti fuori?»

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