Capitolo 34.

15.6K 716 45
                                    



«Papà, io esco!», urlò Nadia dalla sua camera. Si stava finendo di preparare, sia fisicamente che psicologicamente, per la tanto temuta serata con Diego e gli amici. Dopo averci rimuginato sopra, aveva optato per non dire nulla al padre, aggiungendo un'altra bugia alla lista che aveva preso vita da quando era arrivata a Roma.

Guglielmo si affacciò dalla porta della sua camera. Aveva un'aria interrogativa. «Esci? Dopo cena?»

Nadia si bloccò con la spazzola tra i capelli. «Ehm... Sì. Le ragazze hanno proposto un'uscita di gruppo.»

«E dove?» Guglielmo spostò il peso del corpo da una gamba all'altra.

«È venerdì, papà.» Nadia scrollò le spalle, poi tornò a concentrarsi sullo specchio. Sperava che il padre non si accorgesse dell'espressione tesa che aveva in volto. «Andiamo a Trastevere. Ci sono parecchi locali e bar dove passare qualche ora in tranquillità.»

«Vi accompagna qualcuno?» chiese ancora lui, non convinto.

Nadia alzò gli occhi al cielo. «All'andata c'è la mamma di Penelope, mentre al ritorno contiamo di chiamare l'autista di Anita. È sempre disponibile, a qualsiasi orario.»

«Bocciolo, sono contento che il trasferimento ti abbia resa più intraprendente ed espansiva, ma sono anche un po' preoccupato...» Guglielmo fece una pausa e fissò una fotografia appesa al muro della camera, che ritraeva Nadia da bambina su uno scivolo del parco pubblico. «Da quando stiamo arrivati qui mi sembra che tu stia crescendo così in fretta.»

Lo sguardo di Nadia si addolcì. «Papà, io sono sempre la stessa di un mese fa.»

L'uomo sospirò e annuì, prima di spostare lo sguardo sugli abiti della figlia. «Non avrai freddo con quel vestito? Non siamo più in estate, ormai.»

Lei titubò. Aveva indossato un abitino nero a maniche lunghe che le fasciava la vita e si allargava morbidamente fino a metà coscia. «Mi porto un giacchetto», disse subito, afferrando un coprispalle dalla sedia accanto.

Guglielmo finse una smorfia corrucciata e si trascinò con le pantofole fino al salotto. «Non prendere freddo, portati le chiavi di casa e non fare tardi.»

«Agli ordini, capo.» Nadia aspettò che il padre fosse uscito dalla stanza, poi si guardò ancora una volta allo specchio e afferrò la borsetta bianca, con dentro il cellulare, il portafogli e le chiavi dell'appartamento. Poi prese un respiro d'incoraggiamento e guardò l'orologio accanto al comodino: erano le nove in punto, e Diego sarebbe arrivato di lì a poco.

Fuori era quasi del tutto buio. Nadia alzò gli occhi al cielo e notò con dispiacere che non si vedeva nemmeno una stella, coperte da una coltre di nuvole minaccianti pioggia. Sospirò infastidita e s'incamminò lentamente verso l'incrocio dove aveva appuntamento con Diego. Si fermò accanto al ciglio della strada, finché qualche minuto dopo non vide un fascio di luce saettare a velocità a dir poco illegale accanto a lei e decelerare bruscamente accanto al marciapiedi.

Nadia si coprì gli occhi con una mano, acciecata dai fari della moto nera e lucida del compagno, che poggiò gli anfibi di pelle a terra e si voltò verso la ragazza con un sorriso sghembo. «Tra le tante qualità che hai, la puntualità è davvero notevole, Savini», le disse, senza nemmeno salutarla. «Sei splendida stasera.»

Nadia arrossì e scosse la testa. «Non mi sono fatta bella per te.»

«Allora sappi che approvo comunque la scelta dei tuoi vestiti. Sono così tremendamente corti che... wow», fantasticò lui, con i gomiti puntati sul manubrio della moto. «Salta in sella, dai. Prima che la mia mente inizi a formulare pensieri poco consoni per il contesto.»

Nadia rimase ferma sul posto, a fissarlo con un'espressione eloquente.

«Che c'è? Devi salire sulla moto, mica scalare l'Everest con un triciclo.»

«Dov'è il casco?»

Diego rise. «Savini, so guidare perfettamente la mia moto.»

«È pericoloso. E poi, se i carabinieri ci fermano-»

«Non ci fermeranno, sta' tranquilla. Dai, salta su», la spronò lui, con il tono di voce già più spazientito. «Non ti succederà niente. Parola di scout

Nadia sospirò afflitta e si avvicinò alla moto. Fece un po' di fatica a salarci sopra, ma alla fine riuscì a posizionarsi sulla sella. Puntò i piedi sulla pedana e poggiò le mani sul vestito, per coprirsi al meglio le gambe.

Diego la guardò dallo specchietto retrovisore. «Ma sei mai stata su una moto?»

«Non da... sopra», balbettò lei, a disagio.

«Scontato», fece lui. «Qui non sei come su un'automobile. Devi reggerti a me, se non vuoi cadere.»

Nadia annuì e lasciò cadere il discorso una volta per tutte. Con estremo imbarazzo si avvicinò alla schiena del ragazzo e lo strinse per la vita.

Diego accese la moto e diede gas due volte. «Reggiti bene. Si parte», le comunicò, con lo sguardo fisso sulla strada.

Nadia socchiuse gli occhi e strinse la presa più saldamente. Aveva il cuore in gola. Il vento in pochi secondi iniziò a graffiarle il volto e le gambe, rendendola quasi un cubetto di ghiaccio. Quando riuscì a trovare il coraggio di aprire le palpebre, notò che i palazzi intorno a loro si allontanavano indistinti a una velocità stratosferica. Trattenne il respiro e buttò un occhio sul tachimetro: segnava 115 chilometri orari.

«Rallenta, Diego!», gli urlò disperata nell'orecchio.

Il ragazzo rimase impassibile, con le braccia ben definite tese sull'acceleratore. «Se non la smetti, giuro che ti faccio scendere e andare a piedi. Sta' buona, che siamo quasi arrivati!»

Nadia si accucciò nuovamente dietro alla sua schiena per ghermirsi dal vento ed emise un singhiozzo silenzioso, pregando Dio che non si andassero a schiantare addosso a qualche muro. Dopo dieci minuti infiniti la moto decelerò velocemente fino a inchiodare al bordo di una strada. Le ruote emisero uno stridio fastidioso e dalla marmitta uscì una nuvoletta densa di fumo.

Diego poggiò i piedi a terra per stabilizzare la moto e inserì il cavalletto. Con un gesto rapido e atletico smontò dalla sella e si aggiustò i capelli neri, corti e scompigliati. Poi aiutò Nadia a fare lo stesso, che saltellò giù con uno sguardo a dir poco terrorizzato: non sarebbe salita mai più su una moto. Specie se a guidarla era Diego Neri.

«Entriamo? Gli altri ci stanno già aspettando dentro.»

Nadia analizzò il luogo con gli occhi: intorno a loro c'erano palazzi malandati e scrostati. Alcune insegne dei negozi erano scolorite e fulminate, e la cosa meno rincuorante era che non si vedeva anima viva, oltre a loro. Per un attimo Nadia si chiese se si trovassero ancora nella stessa città di prima.

«Terra parla con Nadia, Terra parla con Nadia, ripeto.» Diego ondeggiò la mano di fronte al volto della ragazza.

«Dove siamo?», chiese lei, rinsavendo all'improvviso. «Questi non sono più i Parioli, vero?»

Diego rise e la spinse per la schiena. «Decisamente no, bambolina. Siamo a San Basilio, adesso.»

«E dove... Dove siamo diretti?»

«È un locale per pochi intimi. Sai, un posto dove stare tranquilli a farsi i propri affari... Può entrare soltanto l'élite. E con élite non intendo la stessa cosa dei tuoi amichetti viziati.» Nadia si lasciò trasportare di fronte a quella che sembrava essere l'unica insegna funzionante. Socchiuse gli occhi, cercando di decifrare la scritta a intermittenza. Non c'erano tavoli, né sedie, né persone, là davanti, ma solo una porta metallica verde chiusa. Sembrava un magazzino di una bettola, più che un locale.

«Benvenuta al Joker, Savini.» 

Tutto quello che ho sempre cercatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora