31. SARÒ IL TUO INCUBO PIÙ BELLO

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Il riflesso nello specchio mostrò lunghe gambe magre sbucare oltre i corti pantaloncini del pigiama rosa confetto.

Megan era tornata in camera appena gli animi furono placati. Jack aveva cominciato a sbadigliare; Melita era riuscita ad ottenere il desiderato effetto sedante, mentre lei aveva percepito una pungente fitta di gelosia. Cosa le stava succedendo? Le sembrava che in quegli ultimi giorni i sentimenti per l'amico fossero ricomparsi dal nulla e, ora che abitavano di nuovo assieme, sarebbe stato difficile nasconderli o sopprimerli.

Ripensò all'insopportabile Cristian, solo ora capiva perché Jack l'odiasse tanto e inevitabilmente si ritrovò a dargli ragione. "Quel tipo è un imbecille, senza sé e senza ma. Non solo non mi ha aiutata con quel viscido ubriaco, ma ha pure tentato di rimorchiarmi con un nome falso". Inoltre, facendo mente locale, lo ricollegò al maleducato che, quella stessa mattina in Sede, l'aveva strattonata senza chiederle scusa. L'aveva visto solo di schiena, ma ricordando la voce e il modo sgarbato con il quale le aveva risposto, ne fu certa: quel ragazzo non poteva che trattarsi di Cristian. Ci ripensò e sbuffò infastidita. "Se solo l'avessi visto in faccia mi sarei risparmiata il pessimo spettacolo in discoteca prima e a casa dopo. Mi sono solo resa ridicola".

Mise le mani a coppa sotto l'acqua corrente buttandosela sul volto accaldato.

Dopo esser tornata in camera sua, aveva invano tentato di addormentarsi, si era dunque alzata con l'idea di prendere qualcosa per quel fastidiosissimo mal di testa che non mostrava alcuna intenzione di abbandonarla.

L'orologio segnava le cinque del mattino; da lì a un'ora il sole avrebbe cominciato a rischiarare il cielo di quel primo lunedì romano.

Abbassò piano la maniglia e, con passo felpato, si avviò lungo il corridoio fino in cucina, attendendo che gli occhi si adattassero all'oscurità. Era abituata a spostarsi nel buio e, avendo già memorizzato la disposizione dei mobili, non le risultò difficile giungere davanti al piano cottura, illuminato dal flebile bagliore di un lampione esterno. Recuperò un bicchiere e quindi aprì l'anta del frigorifero per prendere una bottiglia d'acqua, dunque si voltò con l'intenzione di posare entrambi sull'isola rialzata disposta proprio di fronte ai fornelli.

Questa volta, vedendolo, non urlò; per lo spavento non ne ebbe la forza. Fece invece un balzo all'indietro finendo per schiantarsi contro l'acciaio chiaro del frigo.

Su uno degli sgabelli attorno all'isola, a pochi passi da lei, era seduto il nuovo coinquilino che, con ghigno divertito, stava in silenzio ad osservare ogni suo spostamento.

«Ma che...»

«Sssst!» la zittì lui, portando un indice sulle labbra. «Evitiamo di svegliare di nuovo tutti, cosa ne dici?»

«Maledizione, ma che ci fai qui? Ma poi tu non respiri nemmeno?» si lamentò Megan, abbassando il più possibile il tono di voce.

«Fiorellino, stavolta non ho nessuna colpa. Eri tu che camminavi nel buio più totale, avresti potuto accendere la luce. Io sono qui da parecchio, ero solo seduto sul divano là in fondo».

Con gesti falsamente disinvolti, Megan tentò di nascondere la mano tremante riempiendo il bicchiere e accendendo la piccola luce della cappa sulla cucina. L'istinto ed il desiderio la spronavano a dileguarsi il più in fretta possibile da lì, ma non sapendo quale fosse il miglior modo d'agire in quelle circostanze per non risultare acida e sgarbata, si accomodò su uno degli sgabelli, quello più distante da lui; quest'ultimo, col capo leggermente inclinato, la studiava con spudorata curiosità rendendo la situazione ancor più strana e imbarazzante.

«Ascolta, dovremo vivere insieme in questa casa, e seppur la cosa non mi eccita per nulla, io dico di stipulare delle regole per poter convivere almeno civilmente. Dunque, per prima cosa, smettila di chiamarmi fiorellino te lo ripeto per l'ennesima volta e, soprattutto, smettila di parlarmi con quel sorrisetto odioso».

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