Capitolo 13

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Apro gli occhi.

- Buongiorno -  Caleb mi sorride sornione.

È la seconda volta che mi addormento senza rendermene conto, devo riposarmi più spesso. Non sono nella mia camera come pensavo ma nell'infermeria. La luce filtra dalla finestra aperta, sono sdraiata sul pavimento.

- Lascia che ti aiuti - Caleb mi tira su afferrandomi per la vita.

Cerco di ricordarmi da quando è diventato così forte. È pomeriggio inoltrato, il vento soffia leggero muovendo le tende.

Sono tentata di dire qualcosa ma Caleb mi prende le mani - Susan - e mi bacia .

Non posso fare a meno di pensare all'aria improvvisamente elettrica, alle guance che bruciano, al mio nome che assume tutto un altro suono detto da lui . Mi appoggio a Caleb con un sospiro. La sua camicia è bagnata. Cerco di allontanarmi ma Caleb continua a tenermi stretta come se non mi volesse lasciare più andare. Apro la bocca per protestare ma non riesco ad articolare nessun suono.

- Mi fido di te - mormora Caleb e lo ripete ancora e ancora e ancora.

È una cantilena che mi fa battere forte il cuore. C'è qualcosa di  sbagliato. Riesco finalmente a divincolarmi e finalmente riesco a vederlo con chiarezza. La camicia è zuppa di sangue. Anche io lo sono. La mia camicetta, le mie mani, ovunque mi abbia anche solo sfiorato. Mi viene la nausea.

Caleb mi fissa, gli occhi diffidenti - Io mi fido di te, tu ti fidi di me? - .

Non posso parlare, non riesco a rispondergli. E c'è troppo sangue, infiltrato sulle pareti, sulla mia pelle, riflesso nei miei occhi.

- Tu ti fidi di me? - ripete Caleb .

Non aspetta risposta, si volta e sparisce. Liquido carminio e viscoso mi striscia addosso, mi soffoca, è ovunque.




Mi sveglio urlando. Ho le mani premute sulla gola, sto tremando. È stato solo un incubo. Dagli altri letti si intravedono corpi addormentati. Qualcuno mugugna nel sonno, è buio, forse mattina presto. Ricordo Mirtle che mi consiglia di  andare a riposare, una cena frettolosa assieme a mamma e agli altri Abneganti. Deve essere stata la vista dei feriti a farmi avere gli incubi o forse il pane dei Pacifici con il suo sapore erbaceo. Va tutto bene, era un incubo. Lo ripeto alcune volte nella mia mente per smettere di tremare. Ho bisogno di aria fresca.

Mi alzo e mi vesto nella penombra a tentoni allacciando velocemente i bottoni del colletto. Dopo avere cercato inutilmente le scarpe ci rinuncia ed esco. Rabbrividisco quando entro in contatto con il pavimento gelato.

La residenza dei Pacifici è surreale. A differenza di quando ci sono andata con Caleb non c'è la luna e la luce arancio filtra tra gli squarci delle nuvole. È l'alba. Cammino lentamente facendo attenzione a non andare a sbattere contro qualche muro, senza una meta. Sono i miei passi a guidarmi all'infermeria. La porta è spalancata, al mio passaggio le luci al neon si accendono. La Susan del giorno vorrebbe andarsene via e rifugiarsi sotto le coperte ma la ragazza della notte è insolitamente calma. Forse fa bene affrontare le proprie paure qualche volte, anche se a dirlo sono quei folli degli Intrepidi. Respiro l'aria che sa di chiuso e lascio vagare lo sguardo sui contorni sfocati delle porte. Chissà l'espressione di Mirtle quando mi vedrà qui questa mattina.

Poi mi ricordo che è prevista la nostra partenza per questo pomeriggio. È la mia ultima mattina dai Pacifici. Quello che ci aspetta è incerto. Ho una stretta al cuore, al pensiero di lasciare di nuovo Robert.

Alla fine del corridoio noto una luce fioca, una delle porte è aperta lasciandone penetrare una lama sottile. Mi sento temeraria. Potrei fare qualsiasi cosa. Lentamente mi avvicino. Va tutto bene. Non ho paura. Una figura alta si staglia sulla porta. Lancio un grido.

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