Capitolo 20

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Domenica 5 febbraio

Il brontolio del mio stomaco mi risvegliò dal mio stato di trance momentaneo, ributtandomi nella terribile realtà che mi aspettava.

Strizzai gli occhi, confusa, e sollevai di scatto lo sguardo dalle mie scarpe da ginnastica nere per poi rivolgerlo alle pareti austere che mi circondavano e che continuavano a ripetersi sempre uguali ad ogni svolta.

Le opzioni erano due: o la casa dei Blackwood era simile alla borsa di Mary Poppins, con un numero infinito di stanze, o Kenneth mi stava prendendo in giro.

Stavamo camminando da almeno venti minuti, cambiando direzione circa ogni due metri. Ed ero convinta che la maggior parte delle stanze in cui passavamo le avevamo già superate un centinaio di svolte prima.
«Kenneth, non voglio offenderti, ma sei sicuro di non esserti perso?» sbuffai dopo l'ennesimo cambio di rotta.

Il ragazzo si girò leggermente nella mia direzione e mi indirizzò un sorriso di scuse. «So dove dobbiamo andare, non preoccuparti.»

«Ma allora perchè stiamo vagando per tutta la casa? Non sono stupida. Questo è il tappeto su cui sono inciampata dieci minuti fa» replicai, indicando l'enorme distesa di pelo bianco sotto ai miei piedi. Sembrava quasi comodo. E i piedi mi facevano malissimo. Non mi sarebbe dispiaciuto riposarmi un attimo...

«Lo so che sembra strano, ma, come ti ho già detto, la palestra e l'armeria sono collegate. In realtà si trovano sullo stesso piano di una comune cantina, ma il percorso per arrivarci è stato creato in modo da rendere difficile ai nemici rifornirsi delle nostre stesse armi durante una battaglia.»

«Combattete in casa? Non sembra molto agevole» osservai.

«Infatti» fece Kenneth. «In quei casi di solito si tratta di un assedio, non di una vera battaglia. E l'inadeguatezza del luogo è un vantaggio per i nemici.»

Deglutii. Immaginavo già che nel mondo dei Guardiani le guerre fossero all'ordine del giorno, fra discriminazioni e vecchie faide, ma non avevo mai preso in considerazione la possibilità di rimanerne coinvolta di persona. Almeno, fino ad allora. Pensandoci bene, da quando avevo appreso della loro, e quindi mia, natura avevo passato in casa Blackwood quasi tutti i giorni. E se in uno di quei giorni fosse avvenuto uno scontro? Non sarei mai stata capace di difendermi, né sarei stata utile ai miei 'alleati'. Sarei morta in meno di un minuto.

Sentii Kenneth ridacchiare fra sè e io diventai rossa per l'imbarazzo. Abbassai la testa in modo da coprirmi il viso con i capelli. "Brava May, hai dato prova di essere una codarda ancora prima che accadesse qualcosa..."

«Ci siamo quasi» esclamò in quel momento il ragazzo, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Mi guardai intorno: senza che me ne accorgessi avevamo abbandonato gli ambienti interni della casa ed eravamo giunti in un corridoio buio e umido. Sulle pareti, fra intonaco rigonfio e scrostato e ragnatele polverose, si intervallavano faretti al neon che davano al tutto un'aria davvero inquietante. Non mi sarei stupita se fosse apparso un serial killer armato di motosega dalle ombre nere in fondo al corridoio.

Mi sfregai le braccia per attenuare i brividi che mi facevano battere i denti. «Vi siete dimenticati di arredare i sotterranei?» scherzai con voce tremula.

Kenneth mi si avvicinò e mi posò con cautela una mano sulla schiena. «Non avere paura, è un comunissimo corridoio. Solo che poco più sotto ci sono le prigioni, quindi a nessuno è venuto in mente di rendere più accogliente il passaggio.»

Ah, anche le prigioni. Magnifico. «Andiamo. Prima troveremo la palestra e prima quell'incosciente si assumerà le sue responsabilità. E io ho fame, quindi gli converrà darsi una mossa» dissi, per poi dirigermi a passo deciso verso la macchia di nulla di fronte a me. Cercai di concentrarmi sul rumore soffocato dei passi di Kenneth per non pensare alla quantità di ragni che sicuramente infestava quel corridoio, ma il mio cervello si rifiutava di collaborare. Quando arrivammo davanti alla porta di legno che conduceva alla palestra mi stavo già scrollando i capelli alla ricerca di qualche ragnatela, mentre con le mani mi toccavo i vestiti, un'espressione schifata in volto.

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