Capitolo 51

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Sabato 18 febbraio

Era una bella giornata, tutto sommato. Per la prima volta da parecchio tempo il sole concedeva ai suoi deboli raggi di sfiorare la terra, una pallida carezza dopo giorni di pioggia, e il vento soffiava rapido, come a voler spazzare dal cielo ogni minima traccia di tempesta.

In piedi sul limitare della radura, mi scostai i capelli dagli occhi, voltandomi verso il bosco. Inspirai a pieni polmoni. Non ero uscita spesso, ultimamente. Il maltempo, i pericoli e gli allenamenti incessanti si erano alleati per impedirmi anche solo di respirare un po' di aria fresca.

Sorrisi contro le raffiche di vento, con i ricci che mi sferzavano il volto. Alla fine, nonostante le lamentele degli altri Guardiani, avevo cominciato ad allenare i miei poteri e, con essi, le mie alquanto scarse capacità belliche. La palestra della villa era diventata quasi una seconda casa, per quanto quel corridoio polveroso continuasse a disgustarmi. Certo, ero ancora un disastro su tutta la linea, il che non era particolare positivo, considerando la delicata situazione in cui ci trovavamo. Ma ci stavo provando. Stavo cercando di superare un giorno dopo l'altro, senza pensare al futuro

Pur essendo ufficialmente in guerra da quasi un'intera settimana, i nostri nemici non si erano fatti vedere. Nessun messaggero, nessuna minaccia. Quella pace densa di aspettativa mi toglieva più energie di quanto facesse l'esercizio fisico.

Phil continuava a rassicurarci, col suo modo di fare rigido e riservato, quel tanto che bastava per impedirci di impazzire. Non era facile attendere la fine, affatto. Eppure, il signor Blackwood sembrava sicuro di ciò che diceva. Ogni sera, riuniti nel salone per un pasto frugale, non perdeva occasione per ricordarci che non dovevamo farci prendere dal panico. Che quel ritardo non significava nulla, che nemmeno loro potevano esporsi troppo, per quanto noi fossimo impreparati.

Io non sapevo cosa pensare. Ormai avevo accettato il mio destino, ero pronta a dare il mio contributo nella lotta, ma c'erano così tante cose di cui sentivo la mancanza e che, per proteggerle, avevo dovuto abbandonare. Mia zia, che non vedevo da tanto tempo. Lily mi rassicurava sulla sua salute fisica, sulla sua completa estraneità ai fatti, ma non era nemmeno lontanamente paragonabile alla certezza di sentire quelle parole pronunciate dalla sua voce. E Claire, sola, in pericolo. Mi sentivo male soltanto a pensarci e continuavo a colpevolizzarmi per la sua sorte.

Avrei voluto esporre i miei dubbi anche agli altri, ma non riuscivo a farlo. Vedere quei ragazzi, che avevo sempre ritenuto invincibili, ridotti alle ombre di loro stessi bastava a farmi accantonare l'idea di scaricare sulle loro spalle i miei problemi. Soprattutto Amber. Così fragile, un piccolo fiore giallo nel mezzo di un tifone. Sembrava completamente persa, come se si stesse muovendo all'interno di un sogno, in attesa di uscirne. Sorrideva ancora, lo faceva sempre, ma non era capace di nascondere le sue vere emozioni come gli altri.

E, in fondo, nemmeno io me la cavavo molto meglio.

«May, mi stai ascoltando?»

Mi girai di scatto, espirando l'aria silvestre che custodivo ancora nei miei polmoni. Dall'altro lato della radura incontrai cinque paia di occhi irrequieti che mi osservavano. Avevo supplicato per ore i ragazzi di lasciarmi uscire e alla fine ero riuscita ad ottenere un allenamento all'aperto, grazie all'intermediazione di Miles, ma ero sicura che nessuno di loro fosse felice della cosa.

Sorrisi a Kenneth, in piedi di fronte a me, armato di una leggera spada di legno. Lui e sua sorella erano gli unici con cui mi fosse concesso misurarmi in quelle occasioni. Sia perché erano i meno abili nell'adoperare armi da taglio, sia perché erano gli unici a non perdere la pazienza davanti ai miei goffi tentativi di tenere in mano uno di quegli aggeggi pieni di schegge. «Sì, scusa. Mi sono distratta.»

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