Capitolo 59

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Martedì 21 febbraio

Ewan

Fu quando cominciai a desiderare con ardore di essere sbattuto in prigione che capii quanto l'odio che provavo per quelle guardie superasse di gran lunga la mia claustrofobia.

Non avevo sempre odiato gli spazi chiusi. Gli attacchi di panico si erano manifestati solo un paio di anni prima, durante e dopo il periodo passato in prigione. Non era stato un bel periodo, affatto, e sebbene ne parlassi con ironia in realtà mi aveva segnato nel profondo. Era difficile dimenticare la solitudine, il dolore, le vessazioni subite. L'umiliazione. Dio, ricordare il modo in cui, nelle carceri, avevano cercato di ridurre la mia dignità a quella di un oggetto, questo era ciò che mi faceva piu male. E mi era rimasta sul cuore una cicatrice, una ferita ancora fresca che si riapriva ogni volta in cui mi ritrovato costretto in un luogo isolato.

Ma in quel momento, in quel momento avrei fatto qualsiasi cosa pur di allontanarmi da quegli energumeni e, soprattutto, da Alistair.

Per mia fortuna, e forse anche per quella delle guardie, l'entrata delle carceri, collocate nei freddi e bui sotterranei del Palazzo Ducale, mi si parò davanti poco dopo. Senza volerlo, mi bloccai sul posto, lo sguardo fisso davanti a me e un fastidioso nodo alla gola. Quel lungo corridoio, umido e odoroso di salsedine, non era di certo l'immagine più invitante che potessero propormi, ma non fu per quello che il mio corpo reagì in quel modo.

La paura. Era una sensazione che, nonostante i miei sforzi, non mi abbandonava mai. Paura di fallire, di ferire i miei cari, di deluderli ancora una volta. Erano tutto ciò che avevo, perderli avrebbe significato perdere l'unico senso che la mia inutile vita poteva vantarsi di avere. Ma, solitamente, non mi riusciva difficile nasconderla, fingere di essere una statua dal cuore di marmo. Tranne in quel caso. Quelle celle mi riportavano alla galla fiumi di ricordi, in un lento cortometraggio di momenti dolorosi e umilianti. Rividi davanti a me un'assemblea, tre cadaveri accasciati sul banco dei testimoni. Una decina di spade puntate al mio collo. L'umidità insidiosa nei vestiti e nelle ossa. Gli insulti, le risate di scherno, le ferite. Milioni di immagini che mi danzavano davanti agli occhi, impedendomi di proseguire, di poggiare un piede davanti all'altro. Non riuscivo a respirare. Forse avrei pianto, se ne fossi stato ancora capace.

Mi risvegliai da quel tuffo nel passato quando degli aghi incandescenti mi colpirono i gomiti e le ginocchia. Percepii distintamente le scosse calde attraversarmi i nervi fino a raggiungere il cervello, dove esplosero come fuochi d'artificio. Per qualche secondo vidi solo nero, poi la vista tornò a mettersi a fuoco. La consistenza ruvida e irregolare della pietra subentrò subito dopo, portandosi dietro la consapevolezza che ero appena stato spinto a terra.

Mi tirai subito a sedere, nonostante il dolore, e diressi uno sguardo omicida alla guardia che mi aveva portato fin lì. Ray, mi pareva si chiamasse. Da quando l'avevo insultato nel negozio di Margot sembrava non volermi mollare nemmeno per un secondo. Mi aveva legato i polsi dietro la schiena e con un'estremità della corda mi aveva trascinato da una parte all'altra della città, senza darmi un attimo di tregua. Appena avevo cercato di rallentare il passo, lui aveva tirato fuori il mio coltello, che mi aveva sequestrato, e me lo aveva puntato contro la schiena. Bucando la mia giacca di pelle preferita, vorrei sottolineare. Ma poteva stare certo che me l'avrebbe ripagata con gli interessi, ne andava del mio nome.

Ed ora mi stava sovrastando con la sua stazza da allevatore di mucche e con un ghigno divertito sulla bocca. Avevo già notato come questa fosse sproporzionatamente grande rispetto al resto del suo viso, e ogni volta che la guardavo non potevo fare a meno di paragonarlo al Grinch. Solo, un po' meno verde, ecco. L'odore però doveva essere lo stesso, ci avrei giurato la mia collezione di coltelli.

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