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Nell'Agosto di quasi tre anni fa, mi trovavo a Manhattan. Era una estate torrida, e la gente girava in pantaloncini corti e magliette. In vita mia non ho mai prestato grande attenzione ai passanti, ma un giorno, lungo l'ottantaseiesima vidi un brutto anatroccolo da cui scoprii con sorpresa che non potevo più staccare gli occhi.

Mi passò davanti una donna dalla mole oltremodo eccessiva. Era così grassa che nella mia fervida mente ad ogni suo passo arrancato potevo avvertire il marciapiedi scuotersi. Il sole cocente le faceva capofitto sulla testa piena di radi capelli biondo chiaro, che pareva la cima annebbiata di una montagna, e la calura squagliava il suo grasso trattenuto a stento da abiti che non parevano fatti per esseri umani. I rivoli di sudore erano numerose sorgenti su quel corpo sepolto da carni flaccide, su quella montagna dalle contraffatte fattezze civili. I due enormi seni corrispondevano almeno a due teste umane.

Mentre si affannava per la strada, reggendo le buste della spesa e ignorando gli insulti acidi di certe lingue biforcute a cui probabilmente era abituata, la cosa di lei che mi colpì di più furono i suoi occhi.

Owen non diceva nulla né esprimeva col volto i propri pensieri. La ascoltava e basta, e la vedeva nuotare in un ricordo appartenente ai suoi giorni di libertà.

I lineamenti del viso erano compromessi, continuò. Sformati come il resto del fisico, ma quei due occhietti dicevano meglio di ogni altro singolo dettaglio che cosa aveva di oscuro quel brutto anatroccolo. Credeva che un corpo ingombrante e spesso avrebbe tenuto nascosto tutto il marcio che si chiudeva dentro, ma io lo vedevo bene. Seguirla fu facile, non aveva certo il passo di una svelta gazzella ed era impossibile perderla di vista. Non si accorse che la stavo tenendo d'occhio. Abitava in una bettola di appartamento, al quarto piano di un edificio desolato e quasi completamente nascosto dal resto del mondo. Solo una finestra si affacciava un poco su uno squarcio di civiltà e non sul vicolo putrido che affiancava la proprietà. Non sapevo ancora chiaramente perché lei mi avesse conquistata, ma lo aveva fatto e nei giorni successivi cercai di capire chi fosse quel mio nuovo interesse. La mattina seguente la vidi uscire con un bambino piccolo, sui sei, sette anni. Lo teneva per mano. Erano bellissimi insieme.

Quel piccolino era magro e ossuto, con degli arti che parevano infinitamente fragili ed una zazzera di capelli scuri. Era così deperito che gli occhi risultavano più grandi e docili. Tendeva la manina verso di lei, che la inglobava in un pugno morbido e protettivo capace di distruggergliela se avesse voluto. Nella mia mente, erano due parti di una stessa cosa, due guardiani di un mondo privo di regole e proporzioni, tutto loro.

Lei lo lasciò ad un asilo nido da quattro soldi, da una poveraccia senza permessi che tentava di tirare avanti. Lo baciò sulla fronte con affetto, e quel gesto riusciva a trasformarla completamente, se pur per un istante, in una creatura superiore. L'amore per il piccolo la rendeva perfetta così com'era, ma sapevo che lei non lo capiva. I suoi occhietti non vedevano.

Nella settimana seguente scoprii che lavorava in un minuscolo market sempre sulla ottantaseiesima. Mi finsi una cliente un paio di volte. Scoprii il nome del mio brutto anatroccolo. Si chiamava Coleen Powell. È assurdo quanto si possa arrivare a sapere di qualcuno solo con un nome ed un minimo di pazienza ed intelligenza. Ovviamente i federali mi stavano già cercando, erano nel pieno delle indagini, ma non ritenevo di avere molto per cui preoccuparmi. Dopo mesi e mesi di ricerche credevano ancora che il Ritrattista, come mi avevano battezzato i giornali, fosse un uomo. Non sapevano nemmeno dove fossi e le indagini erano ancora sotto la giurisdizione della polizia di Las Vegas quando io ormai stavo a New York da un pezzo. Ero certa che non mi avrebbero mai presa, ma non intendevo commettere errori.

Svolgevo le mie ricerche su Coleen nella maniera meno rintracciabile che conoscessi, e sapevo che l'uso della rete è sempre un ipotetico rischio, un rischio che ritenevo inutile. Agii sul campo, senza farmi notare.

Una mattina entrai in casa del brutto anatroccolo. Fu fin toppo facile. Forzai una finestra passando dalle scale di emergenza. Scoprii ogni cosa su di lei e sul piccolo Charles, il suo rachitico bambino con lo sguardo di un cerbiatto selvatico.

Coleen era una donna straordinariamente meticolosa nel sistemare e pulire la sua casa, l'esatto opposto di ciò che faceva con la propria salute. Sapevo già del suo vizio col fumo, ma nulla di eccessivo paragonato al cibo che trangugiava ogni venti minuti. Teneva l'atto di nascita di suo figlio e altro in raccoglitori e cartelle accuratamente riposte in una piccola libreria, come un vero e proprio tempio. La documentazione su Charles era infinita, soprattutto quella medica. Problemi cardiaci e respiratori fin dalla nascita, spese infinite per i trattamenti e le operazioni che non poteva permettersi, ed un ex marito assente che non aveva riconosciuto il bambino ed era sparito poco prima che venisse al mondo. Tra l'altro sulle spalle le gravavano anche le spese a carico per la madre in una casa di cura, le tasse, e le necessità del piccolo. Era palese quanto quella donna si sentisse in trappola, bloccata ed incapace di rialzarsi da terra. La storia si infittiva, e le domande su di lei erano sempre più numerose.

Il Ritrattista sogghignò, divertita da qualcosa che solo lei sapeva.

Insomma, era chiaro che dovessi fare qualcosa per aiutarla. Parole umane che tuttavia suonavano come una condanna a morte, e sapevano entrambi che era finita così.

Il RitrattistaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora