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Ricordo che camminai per ore senza mai fermarmi, alternando al passo svelto la corsa, e incespicando ma mai cadendo su quei suoli ingannatori della foresta, a cui ero abituata. Ricordo... che anche se pareva un giorno qualsiasi, eravamo in autunno, e non fu affatto un giorno come gli altri. Gli occhi di Jane sembravano lontani. Il gesto di Jocie, quella sua cattiveria gratuita e dettata dall'odio che altro odio genera, non mi ferii troppo, ma accumulato al resto mi fece esplodere. Tagliare i capelli come a voler sbarazzarsi di me fin quanto gli era concesso, era orribile... ma c'erano stati così tanti tentativi di cancellarmi ormai, che la mia sofferenza si era abituata a rendersi indistruttibile ed indelebile. Io ero Grace nonostante tutto, ci provassero pure a distruggermi, ogni volta ne uscivo solo più forte e più furiosa. Sai, come un Idra mitologico a cui per ogni testa tagliata ne ricrescono due, io reagivo così, e nel silenzio mi rafforzavo. Ma c'erano giorni fra tutti gli altri, in cui quel grigiore pareva rafforzarsi con me, legandosi all'oscurità e al dolore. Era un giorno così quello, uno in cui mi sentivo sprofondare. Quando le gambe si fecero doloranti e tremanti erano trascorse ore, e mi abbandonai sulle foglie umide e scure, con la schiena posata al tronco di una quercia. Per un po' guardai quell'albero chiedendomi da quanto fosse lì e che cosa avesse visto. Restai seduta così cercando di svuotare la testa, e come sempre non ci riuscii. E piansi in silenzio ricordando ogni singola ferita invisibile agli occhi, sfoggiando tutto ciò che non mostravo a nessuno, tutta la mia umana fragilità.

Sentii uno scricchiolio, il suono di un legno infrangersi. Sapevo che non era uno dei Campbell, non si spingevano mai fino a simili distanze e cominciavano a cercare qualcuno solo se non rincasava per cena, inoltre, dopo più di un anno erano certi di avermi messa al guinzaglio. Guardai fra i tronchi fitti e sottili aspettandomi di vedere qualche animale, interrompendo i singhiozzi in automatico e col battito che rallentava sapientemente per affinare l'udito creando la massima quiete. Lo vidi subito e fui incapace di giustificarmi per come non lo avessi notato fino ad allora, perché indossava uno di quei bomber color rosso sgargiante un po' logorato, come se l'avessero portato per anni, ma comunque evidente quanto un elefante in una cristalleria.

Era un bambino che non conoscevo, mi guardava con due grandi occhi nocciola da dietro uno degli alberi. Pareva rigido e impaurito come fosse dinnanzi ad un lupo selvatico, e anche lui così diveniva come qualcosa di animale ed appartenente a quel luogo. I capelli neri lisci gli ricadevano sino alle spalle, accerchiando il volto tondo. Le labbra piene e la bocca piccola lasciavano esalare una nube di fiato agitato in quel luogo freddo. Piovigginava ed ero già bagnata, ma me ne resi conto solo alzando gli occhi su di lui, che portava il cappuccio.

Che cosa vuoi?! Chiesi ruggendo, furiosa che qualcuno si immettesse nella mia solitudine. Lui cadde all'indietro annaspando fra il fogliame, quasi come lo avessi spinto con le sole parole. Per un po' ognuno restò al suo posto, e nel silenzio ci osservammo. La pioggia più densa picchiettava sulle foglie suonandole come un'orchestra. Ricordo la sua testa che sbucava da quel cappuccio, poi con una mano fece per prendere qualcosa, rendendomi inquieta. Aprì un ombrello.

In due ci stiamo. Owen vide la felicità nel sorriso di Jane per quel ricordo. 

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