Capitolo 42

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Eravamo tutti e tre fuori in balcone, all'Hilton; avevamo portato fuori delle sedie di vimini dalla stanza di Louis e avevamo arredato il luogo dove avremmo passato la nostra serata.

Vicky era seduta alla mia destra, sulla sua poltrona, una bottiglia di rum tra le mani che beveva direttamente dalla bottiglia ad intervalli di tempo di circa un minuto. Io alla sua sinistra, il sedere leggermente in avanti sul cuscino della mia sedia, le gambe piegate all'addome e uno spinello tra le dita, che Louis mi aveva preparato qualche minuto prima.

Lui era l'unico in piedi, le gambe allungate in avanti e il gomito appoggiato sul marmo del balcone; alternava lo sguardo dall'una all'altra, a volte con un sorriso sghembo, a volte con una smorfia in segno di rimprovero. Tra le dita della mano destra stringeva l'altra metà dell'erba che aveva comprato, portandosela alle labbra di tanto in tanto ed inspirando profondamente.

Non potei che ripensare al momento in cui aveva preparato il tutto; il modo in cui i suoi occhi si concentravano sulla cartina tra le sue mani e le sue dita mischiavano l'erba al tabacco, per poi avvolgere tutto insieme e cacciare fuori la lingua a bagnare l'estremità della cartina per chiuderla, percorrendola più e più volte, avanti e indietro, con la punta della sua lingua.

Era maledettamente provocante, ed io così dannatamente fatta.

Pensavo a questo mentre lo guardavo, un sorriso sbilenco sulle mie labbra e gli occhi socchiusi per la sensazione di leggerezza che avevo cominciato a sentire nella mia testa. Indossava dei pantaloni morbidi della tuta che gli sfioravano le ginocchia, grigio chiaro, e sopra una semplice maglietta fine, bianca. Se mi concentravo, grazie alla luce posta al muro alle mie spalle che gli rifletteva addosso, riuscivo a scorgere la scritta che aveva tatuata sul petto.

«Per vent'anni non ho saputo chi fosse mio padre, tutti ce l'avevano ed io ero l'unica a non sapere nemmeno che faccia avesse, o come si chiamasse.» Vicky ruppe il silenzio, portandosi poi la bottiglia alle labbra per bere un lungo sorso di alcol. Mi girai a guardarla e lei proseguì. «Poi, sono riuscita a far sputare a mia madre un nome, e per tre anni ho cominciato ad instaurare un rapporto di odio-amore nei confronti di Philip Reed. Avevo appena accettato che fosse mio padre, che mi avesse abbandonata e che non gliene fregasse nulla di me, per poi scoprire che in realtà non lo è. Che sono punto e a capo.»

Seguì un lungo silenzio in cui Louis spense il suo spinello, ormai finito, e Vicky si riportò la bottiglia alla bocca nello stesso momento in cui io racchiusi il filtro tra le labbra e presi un lungo respiro.

«Beh.» feci poi, soffiando lentamente fuori il fumo dal naso e in seguito anche dalla bocca. «Se ti può consolare, io sono nata grazie a uno che si è fatto una sega davanti a dei giornalini porno. Solamente per soldi.»

Mi presi dei secondi per realizzare le mie stesse parole, sbattendo lentamente le palpebre.

«In pratica, sono nata da una sega.»

Sentii Louis sbuffare una risata, scuotendo la testa, mentre Vicky si girò semplicemente a guardarmi, con la fronte aggrottata come se stesse cercando di decifrare le mie parole. I suoi occhi erano gonfi e vuoti a causa dell'alcol, e sicuramente i miei non saranno stati in condizioni migliori, anzi.

Non fumavo e, solitamente, non sopportavo chi lo faceva; alla prima boccata di fumo che entrò nei miei polmoni mi ritrovai a tossire ma alla seconda già andò meglio. Qualche volta era bello sentire quella sensazione di leggerezza e spensieratezza, e quella sera io avevo maledettamente bisogno di sentirmi esattamente in quel modo.

Vicky scoppiò a ridere improvvisamente, dopo circa un minuto dalla mia battuta, capendola solamente in quell'esatto istante. Rise talmente tanto che ad un tratto le scappò un rutto, e ricominciò a ridere più di prima, arrivando addirittura a lacrimare.

Haze||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora