Capitolo 25

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Tre mesi dopo

Presi la videocamera e la posizionai sul piedistallo al mio fianco.

12 dicembre 2018: era il giorno prefissato per il torneo più importante di surf, svolto dai professionisti. Ariel aveva sempre desiderato poterlo vedere dal vivo, ma non ne aveva mai avuta l'occasione.

Sapevo che registrarlo con una semplice videocamera non sarebbe stato lo stesso, ma dato che se lo guardava ogni anno in diretta streaming, non volevo che quest'anno se lo perdesse.

La situazione era stabile da tre mesi.

I medici avevano deciso di indurre una "condizione farmacologica di sedazione" – così l'avevano definita, ma è più comunemente conosciuto come "coma farmacologico" – due giorni dopo l'incidente, nonostante Ariel fosse comunque già in coma naturale. Dicevano che così facendo avrebbero momentaneamente messo a riposo le sue cellule cerebrali, in modo da favorire il recupero completo delle loro funzioni.

Avevano però smesso di somministrare farmaci da qualche settimana, ormai, e loro stessi non riuscivano a spiegarsi, a questo punto, come mai non si svegliasse; la caduta era stata brutta, la botta le aveva causato un grave trauma cranico, ma era giovane e perfettamente in forma.

Avevano previsto una ripresa da parte sua in tempi brevi, ma evidentemente si erano sbagliati o forse, come tutti noi, le avevano dato troppa fiducia.

Io, ogni volta che andavo a trovarla, le dicevo sempre "Non mi importa quanto ti ci voglia per riprenderti. Prenditi tutto il tempo che ti serve, basta che poi torni da me."

Mi ci era voluto del tempo per incominciare a parlarle, e ancora di più per sfiorarla.

Nonostante i medici consigliassero di continuare ad avere un contatto fisico con lei e parlare come se ci potesse sentire, io non me l'ero mai sentita. Avevo cominciato un mese fa circa, ma le parlavo solamente quando eravamo soli.

Ogni volta che prendevo l'ascensore per entrare nella mia camera d'albergo, e vedevo la parola "tetto" scritta sopra da lei, con la sua scrittura, mi si inumidivano gli occhi.

C'erano così tanti luoghi in cui eravamo stati, così tante parole dette in circostanze che mi si ripresentavano ogni giorno, che faceva veramente male.

A volte la vedevo ballare in modo scatenato nella mia stanza, la vedevo ridere; quando facevo qualcosa che sapevo non avrebbe approvato, sentivo perfino la sua voce seccata ripetermi "Quanto sei noioso, Tomlinson!".

Era dura, molto.

I miei amici erano tornati in Inghilterra, alla loro vita, come era giusto che fosse.

Briana era venuta con Freddie per qualche giorno, giusto per farmelo vedere, dato che avevo deciso di non lasciare le Hawaii.

La mia famiglia era preoccupata per me; avevano paura che potessi buttarmi giù, ma accettavano il fatto di vedermi tramite Skype ogni sera per sopperire alla mancanza.

Niall mi stava molto vicino in questo periodo, così come gli altri ragazzi della band, ma lui, avendola conosciuta, sapeva molto bene cosa provassi per lei e cercava di tirarmi su di morale in ogni modo.

Luke era venuto a trovarmi.

Sì, un giorno l'avevo visto entrare dalla porta della stanza di Ariel, mentre ero seduto al suo capezzale. Ci abbracciammo e parlammo come se niente fosse successo tra di noi; mi chiese scusa di nuovo, per l'ennesima volta, ma in quel momento quel tradimento non era poi tanto importante come credevo che fosse mesi prima.

In quei mesi avevo scritto molto; la situazione, la solitudine, mi avevano portato ad avere molto tempo a disposizione per me.

Non avevo ancora registrato niente, però avevo scritto i testi di quasi dieci canzoni. La maggior parte parlavano di me, alcune di Freddie.

Haze||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora