Giorno 98
Adoravo gli aeroporti.
Non appena mettevi piede lì dentro, riuscivi a percepire mille umori diversi, tutti in una volta, da quelli euforici a quelli agitati per concludere con quelli tristi.
Per questo, quando chiusi la valigia, Louis consegnò – finalmente – la jeep al concessionario e chiamò un taxi per scortare noi, e i miei genitori – i quali avrebbero preso un volo per Sidney – in aeroporto, ero pronta a vivere tutte quelle sensazioni in prima persona.
Quello che non mi aspettavo, però, fu di scendere dal taxi e ritrovarmi occhi e fotocamere di una decina di paparazzi puntati addosso.
Louis tirò su il cappuccio della sua felpa sulla testa e mi cinse il bacino con un braccio per sostenermi, sia fisicamente che moralmente, mentre camminavamo lungo il tappeto rosso che conduceva all'entrata dell'aeroporto.
I paparazzi non si arresero, comunque, e continuarono a richiamare la sua attenzione ripetendo a voce alta il suo nome, ma Louis tenne sempre il volto basso – invitandomi a fare altrettanto – camminando velocemente senza dare conto a nessuna delle domande lampo che gli venivano poste, sulla propria vita personale. Le quali, a volte, includevano anche me.
Non immaginavo si potessero porre così tante domande nel giro di pochissimi secondi come quelli, ma evidentemente era una cosa a cui Louis era abituato, a differenza mia.
«Come sapevano che saresti stato qui?» sussurrai tra i denti mentre raggiungevamo le porte scorrevoli per entrare.
«Non credo siano venuti per me.» mormorò lui in risposta. «Sono quel tipo di persone che si appostano all'entrata degli aeroporti nella speranza di vedere arrivare gente famosa da fotografare per farsi qualche soldo facile. Sono pochi, neanche dieci. Comunque, grazie a loro, ci ritroveremo un centinaio di paparazzi non appena atterriamo a Los Angeles.»
La domanda che sorse spontanea nella mia testa fu come avrebbero fatto i paparazzi a sapere che saremmo stati diretti proprio a Los Angeles, e non in qualsiasi altra parte del mondo, ma non ero sicura di voler sapere fino in fondo la risposta.
Non appena varcammo la soglia, comunque, tirammo entrambi un sospiro di sollievo e Louis allentò la presa attorno al mio bacino per girarci entrambi verso i miei genitori, che entrarono subito dopo di noi.
A quel punto mi presi del tempo per guardarmi intorno, non facendo altro che confermare quanto tutte le mie teorie sugli aeroporti fossero vere; mi ritrovai davanti gruppi di amici che correvano con le proprie valigie, ridendo e spintonandosi, probabilmente al settimo cielo al pensiero di dover cominciare una vacanza insieme.
Poco più in là, qualche uomo vestito bene, in giacca e cravatta, parlava al telefono di questioni di lavoro mentre faceva la coda al check-in. Più avanti, invece, due bambini piccoli – di quattro e sette anni all'incirca – salutavano il padre, abbracciandolo stretto stretto mentre la madre guardava il quadretto a qualche passo di distanza, tamponandosi gli angoli degli occhi con un fazzoletto di stoffa.
Era incredibile pensare come una partenza potesse essere una cosa bellissima per alcuni, e una più totale agonia per altri.
L'autista del taxi che ci portò alcune delle valigie dall'auto mi risvegliò dai miei pensieri.
«Questa la portiamo a casa noi, giusto?» mi chiese mio padre, sollevando la mia tavola da terra.
«No!» esclamai subito, afferrandola io stessa.
Mio padre alzò entrambe le sopracciglia, sorpreso; mia madre smise di frugare nella sua borsa alla ricerca dei biglietti per fissare i suoi occhi nei miei e, quando mi voltai verso Louis, lo trovai a fissarmi con gli occhi grandi mentre sbatteva velocemente le palpebre per la perplessità.
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Haze||Louis Tomlinson
FanfictionMi chiamo Ariel Reed e ho ventidue anni. Vivo a Brisbane, in Australia, e sono stata in coma per nove mesi in seguito a un incidente. Mi sono ripresa abbastanza bene, il mio cervello non ha nessun difetto; riesco a fare tutte le cose che mi servono...