Capitolo 60

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Song: Waves – Dean Lewis

Le notti non erano mai state più lunghe come qui in ospedale. Mi correggo: a dire il vero, le notti non erano mai state più lunghe da quando Ariel era andata in coma.

Che toccasse a me il turno in ospedale o fossi nel mio letto in albergo, aveva poca importanza. Per quel poco che riuscivo a dormire, il mio sonno era talmente tormentato che ogni volta che mi svegliavo al mattino mi sembrava di essere più stanco di quando mi mettevo a letto.

A volte riuscivo ad assopirmi per qualche minuto sulla poltrona affianco al letto dove la mia ragazza giaceva distesa, ma poi puntualmente mi svegliavo poco dopo, agitato, con l'impressione di aver sentito un nuovo suono insolito provenire dall'apparecchio elettronico a cui era collegata oppure a volte – in casi più estremi – perfino la sua voce chiamarmi. Ma ogni volta che riaprivo gli occhi, nulla era cambiato e il mio sonno era ormai andato.

Per questo motivo avevo cominciato a scrivere la nostra storia. Per questo, e perché credevo fermamente che avrebbe aiutato Ariel nel momento in cui si fosse svegliata.

Perché si sarebbe svegliata.

Spensi la sigaretta nel posacenere e mi voltai per rientrare in stanza nell'esatto istante in cui l'uscio si aprì, e la figura di Vicky con un caffè tra le mani entrò in camera, sorridendomi subito calorosamente.

«Ciao.» mi sussurrò con un fil di voce, come se parlare con un tono normale di voce avrebbe potuto disturbare Ariel, a quell'ora di notte.

«Sono le tre del mattino, cosa ci fai qui?» le chiesi, afferrando poi il caffè che aveva portato per me.

La mia domanda era retorica, in quanto Vicky passava spesso di qui, anche a notte fonda, quando si trovava nei paraggi. Da quando Ariel era andata in coma era stata ovviamente costretta a tornare in Texas, ma alla prima occasione si prendeva dei giorni di ferie dal lavoro e veniva qui per qualche giorno a vedere coi propri occhi come si stesse evolvendo la situazione.

Nonostante tra lei e Ariel ci fossero state numerose incomprensioni, mi auguravo che il loro rapporto potesse diventare così solido come l'avevo descritto nel mio romanzo. Vicky era veramente una persona meravigliosa, e questa situazione mi aveva portato a conoscerla meglio a tal punto da considerarla una vera amica.

Ogni volta che ero giù, era lei con la sua esuberanza e la sua risata strana e contagiosa a tirarmi su il morale, puntualmente.

Inoltre, più di una volta ero entrato in stanza dopo una pausa-sigaretta, e l'avevo trovata seduta sulla sedia a bordo del letto a mettere dello smalto nuovo sulle unghie ad Ariel, oppure a pettinarle i capelli o passarle il burrocacao sulle labbra quando gliele trovava screpolate. Avevo sempre sorriso davanti a quel genere di scene, un po' per la tenerezza che mi suscitavano e un po' per nostalgia.

E poi, soprattutto, perché Ariel non si sarebbe mai messa dello smalto verde fosforescente sulle unghie; se avesse potuto, l'avrebbe uccisa all'istante.

«Sono stata al chiosco in spiaggia fino ad ora, e prima di andare a casa ho pensato di passare di qua e portati qualcosa da bere.» mi rispose, sedendosi sulla sedia davanti al mio PC ancora aperto. «Hai finito il romanzo?»

«Ieri sera.» dissi, prendendo un sorso di caffè.

«Posso?» mi chiese quindi, alzando lo sguardo nel mio e non appena mi vide titubante cominciò immediatamente a protestare. «Mi avevi promesso che me l'avresti fatto leggere una volta terminato!» si lamentò, e quando mi vide ignorarla e sorridere sotto i baffi perse la pazienza. «Tomlinson!»

«Hai già il file aperto.» osservai ridendo. «Scorri fino all'inizio.»

La sua espressione seccata si trasformò subito in una di pura gioia mentre non perdeva altro tempo per picchiettare il pollice sull'area touch del mio laptop e arrivare alla prima pagina. Si tolse velocemente le scarpe, incrociò le gambe sulla poltrona per mettersi comoda e infine mi guardò.

Haze||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora