Una strana dimora

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Balzò nell'armadio e si chiuse la porta alle spalle.
Evidentemente, aveva dimenticato che non bisogna farlo in nessun caso.
(C.S. Lewis, il leone, la strega e l'armadio)

La notte era chiara e la luna pallida e  rassicurante, le stelle brillavano tranquille sospese in un cielo terso e di una meravigliosa sfumatura di blu. Erano passati tre giorni da quando i nostri protagonisti si erano lasciati alle spalle Dartmoor, e procedevano piuttosto spediti in direzione di Londra, dove avrebbero potuto fermarsi e concedersi finalmente un po' di tempo per elaborare un piano e magari anche un letto e un pasto caldo. Man mano che si avvicinavano, però, tendevano sempre di più a evitare strade affollate e città; sapevano che Grindelwald era da qualche parte in Inghilterra e aveva occhi e orecchie ovunque, ma finché non era al corrente dei loro spostamenti, avevano un piccolo vantaggio, e forse sarebbero stati addirittura in grado di portare via Tina senza essere visti. Quella notte si erano fermati nei pressi di un piccolo lago dall'acqua putrida e la vegetazione arida, che sembrava fosse stato dimenticato dal mondo. Sulla sponda opposta c'era una catapecchia probabilmente abbandonata da secoli, con il tetto che sembrava sul punto di crollare e la vegetazione giallognola che si era arrampicata sui muri fin quasi a ricoprirli del tutto.
Organizzarono i turni di guardia, e a Jacob toccò il primo. Di certo non ne era entusiasta, ma non disse una parola e, armato di notevole pazienza, andò a sedersi su un grosso masso. Aveva una brutta sensazione che non riusciva a scrollarsi di dosso.
  Era passato appena qualche minuto quando Jacob si ritrovò davanti agli occhi uno spettacolo agghiacciante. Vide in lontananza le quattro sagome solitarie di una donna con tre bambini. La donna aveva un'espressione stremata che la faceva apparire molto più vecchia della sua età, e si guardava intorno preoccupata. I bambini, due maschi e una femmina, quasi di certo suoi figli, camminavano in silenzio dietro di lei. I due maschi erano praticamente identici, anche se uno dei due era leggermente più alto dell'altro, e non dovevano avere più di sei anni, invece la femmina aveva i tratti ancora acerbi di una giovane che si stava lentamente lasciando l'infanzia alle spalle e indugiava sulla soglia. Quello che saltò immediatamente agli occhi di Jacob furono i suoi capelli rosso fuoco. La madre si girò all'improvviso e si abbassò. Guardò i bambini negli occhi uno per uno, con un'espressione seria e apprensiva, poi sussurrò qualcosa. I tre bambini annuirono, e la donna li abbracciò con dolcezza, senza però abbandonare la sua espressione turbata. Jacob non riuscì a fare a meno di vedere in quella donna la sua Queenie, e nei bambini i figli che avevano sempre voluto. Improvvisamente, un'altra figura si avvicinò alla famigliola. Era un uomo spaventoso, la cui sola presenza incuteva una silenziosa minaccia. Era vestito completamente di un rosso scuro orribilmente simile al colore del sangue. Il suo volto era completamente coperto da uno strano cappuccio a punta, che lasciava intravedere appena gli occhi per mezzo di due buchi. Silenziosamente, strappò i bambini alla madre e, prima che potessero reagire, prese la bacchetta e con un incantesimo li legò e impedì loro di urlare. La donna sguainò prontamente la sua bacchetta e la puntò contro la figura incappucciata, ma nessuno dei suoi incantesimi andò a segno. In un batter d'occhio si ritrovò disarmata, e i suoi bambini furono portati all'interno della vecchia casa. La madre cadde in ginocchio e pianse disperata. Jacob non riuscì a ignorante quel lamento struggente. Uscì allo scoperto e in un attimo si ritrovò ad attraversare la porta della casa.
L'interno dell'edificio non rifletteva per niente le condizioni pericolanti dell'esterno: tutto era grande e sontuoso, ogni angolo era un trionfo di eleganza e ricchezza. Eppure c'era qualcosa di profondamente inquietante nei marmi scuri e nelle austere colonne illuminati dalla luce della luna che filtrava attraverso le pesanti tende impolverate. Jacob raccolse tutto il suo immenso coraggio e si aggirò per i corridoi di quella grande casa, aprendo di tanto in tanto qualche porta nella speranza di trovare i bambini. I lampadari di cristallo emettevano una debole luce sfarfallante, che faceva venire il mal di testa.
Di colpo, a Jacob parve di sentire una voce sussurrare il suo nome, seguita da un urlo agghiacciante che sembrava provenire da qualche parte dietro di lui. Si voltò di scatto, spaventato, ma non c'era nessuno. Camminò con cautela, guardandosi intorno, con la spaventosa sensazione di perdersi in quel dedalo di corridori e il timore di non riuscire mai più a tornare indietro.
A un tratto una figura vermiglia balenò davanti ai suoi occhi, veloce e improvvisa, come se fosse un fantasma. Jacob riconobbe il cappuccio a punta dell'uomo che aveva preso i bambini.
— Chi sei? — chiese il mago incappucciato con voce piatta.
Jacob, nel panico, tentò di pensare in fretta e disse la prima cosa che gli venne in mente: — un medico — rispose. Tentò di suonare credibile, ma percepiva l'espressione dell'uomo farsi dubbiosa sotto il cappuccio.
— Nessuno è autorizzato a entrare in questa casa, signor medico — ribatté il mago, e dal modo in cui calcò l'ultima parola fu subito chiaro che non se l'era bevuta nemmeno per un secondo, anzi, era sempre più arrabbiato.
Capendo di non avere alcuna speranza di ingannare il padrone di casa, Jacob iniziò a correre, inseguito dall'uomo che, completamente coperto dal mantello, sembrava fluttuare nell'aria. Presto i muscoli delle gambe iniziarono a bruciargli, ma lui strinse i denti e continuò a correre, senza prestare attenzione a dove andasse, ormai certo di essersi perso. La presenza alle sue spalle era sempre più tangibile e minacciosa, se Jacob non avesse fatto qualcosa, sarebbe stato preso. Alla fine del corridoio, vide una grande porta. Era fittamente decorata con strane forme spigolose e appuntite, e due massicce colonne tortili sostenevano un architrave di dimensioni spropositate. Senza esitare, Jacob corse ancora più veloce e spinse la porta, che cigolò e protestò, spostandosi appena di qualche millimetro. Spinse più forte, e quando riuscì ad aprire del tutto la porta, il mago lo aveva già raggiunto. Sentiva il suo fiato sul collo. Incapace di pensare ad altro, stese il braccio e lo colpì con un pugno, cercando di guadagnare un po' di tempo.
—Scusi, lo faccio per i bambini! — disse, mentre le sue nocche incontravano una superficie diversa dalla stoffa del mantello. Si voltò per un istante, e notò che il mago indossava un collare di pelle decorato con un ciondolo triangolare. Capì immediatamente che si trattava del simbolo di quel Grindelwald, e iniziò ad avere seriamente paura. Entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Era la sala più ricca che avesse mai visto. Gli stucchi dorati riflettevano il chiarore della luna, creando uno sgradevole effetto di pallore mortale. Una sola parete era priva di decorazioni, a parte un'enorme "T".
— Ti prenderò, puoi starne certo! — sentì la voce minacciosa del padrone di casa urlare da fuori.
Terrorizzato, il povero Jacob si infilò in un enorme armadio in mogano addossato alla parete e si chiuse la porta alle spalle. Un grosso errore.
I rumori all'esterno sembrarono placarsi dopo una vita, evidentemente il mago inquietante aveva ben pensato di continuare a urlare altrove. Almeno in parte sollevato, Jacob capì che era il momento giusto per uscire, così spinse l'anta dell'armadio. Non si aprì. Spinse più forte, l'armadio traballò, ma la porta rimase chiusa. La tempestò di calci e di pugni, spinse fino a ferirsi le mani, ma non servì a nulla. Gli mancò il respiro: era in trappola, e non c'era modo di liberarsi. Rimase immobile in una posizione terribilmente scomoda per quelle che gli parvero ore, sperando che Dio lo aiutasse e cercando di convincersi che sarebbe riuscito a trovare un modo per uscire da quella situazione. Chiuse gli occhi e, sfinito e demoralizzato, appoggiò la mano su un cappotto polveroso. E fu allora che qualcosa accadde: nella parete dell'armadio si aprì una cavità che era sicuro di non aver visto prima, all'interno della quale c'era un sacchetto nero di velluto, delle dimensioni della sua mano. Aprì il sacchetto, lottando con il poco spazio, e un bagliore verdastro illuminò l'ambiente angusto. Riconobbe immediatamente quel congegno: era quella strana bussola, quella che stavano usando per cercare Tina e che poi avevano dovuto cedere a mister dentigialli... rapidamente prese il congegno e lo fece scivolare nella sua tasca, poi rimise il sacchetto al suo posto nella stessa posizione in cui l'aveva trovato. Rinvigorito da quella scoperta, si rannicchiò silenziosamente in un angolo e si sforzò di elaborare un piano. Quando però sentì dei passi che si avvicinavano, capì di non avere più scampo. Sentì il rumore rimbombare contro le pareti e arrivare alle sue orecchie mille volte più forte, e desiderò di sparire, di essere ovunque ma non lì. Impedirsi di pensare a cosa gli sarebbe successo di lì a poco si rivelò impossibile, e già immaginava la sua testa tagliata, o il suo cuore dato in pasto a chissà quale mostruoso animale. Sentì le porte della stanza che si spalancavano, e il suo cuore iniziò a battere disperatamente, quasi volesse uscirgli dal petto, non riusciva a respirare e il suo stomaco si agitava come impazzito. Ogni parte del suo corpo tremava mentre i passi si facevano sempre più vicini. Era davvero così che doveva finire?
Sentì qualcuno armeggiare con la serratura dell'armadio. Trattenne il respiro e strinse gli occhi, sperando che almeno succedesse in fretta.

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