21. She's not afraid

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<<É un bastardo>> commentò. Lo guardai, poggiando la coppa dei popcorn sul comodino sospirando. Eravamo qui da soli dieci minuti e aveva già trovato un difetto, era incredibile.
<<No, che non lo è> gli risposi, incrociando gambe e braccia lanciandogli un'occhiataccia. Lo avrei ammazzato.
<<Invece sì, è un bastardo. In più, è un cesso>> presi il cuscino e glielo lanciai dritto in faccia per poi alzarmi. Un altro insulto a Kit Harington e lo avrei spedito al suo stesso funerale. Mi afferrò il polso e mi tirò a lui, bloccandomi sotto il suo corpo e sorridendo con aria innocente come se si stesse scusando. Riportai le braccia al petto e sbuffai, facendolo ridere.
<<Chiedo venia>> alzò le mani in segno di resa e sorrise, per poi accarezzarmi i fianchi facendomi rabbrividire. Era un bambino.
<<Non così facilmente, Lannister>> sorrisi, portando le braccia intorno al suo collo e piegando le gambe in modo che si mettesse tra di esse. Scosse la testa divertito e portò le mani dentro la maglietta per accarezzarmi i fianchi, lasciandomi un bacio sulle labbra. Non gli bastava mai.
<<Posso essere il tuo Jon Snow, mia Khaleesi?>> mormorò, lasciandomi una scia di baci sul collo mentre le sue mani salivano sulla pelle arrivando sul petto per sfiorarmi i seni con le nocche. Annuii, sorridendo da un orecchio all'altro e portando Zayn sotto il mio corpo tenendogli i polsi bloccati ai lati della sua testa. Si morse il labbro, guardandomi da capo a piede e sospirò, abbastanza eccitato. Era la quarta volta, dopo una notte movimentata. Game Of Thrones non era mai stato così eccitante.

Passò una settimana. Una settimana da quando andai a letto con Zayn. Dopo quel giorno, tornò tutto come prima. Io da sola, a pensare a tutto quanto e lui con Chanel. Era stata una gita, un'avventura ad Hogwarts la quale rifarei se tornassi indietro. Ma dovevamo vivere nella realtà, non nella fantasia. Sospirai, premendo lo scarico e buttando via l'involucro di plastica. Mi era arrivato il ciclo, in anticipo, così credevo. Non lo so, questo bastardo andava e veniva come più li piaceva. Una volta rischiai in classe, sentii un dolore atroce allo stomaco e quando corsi in bagno imprecai in mille lingue: avevo i pantaloni bianchi e non so quale santo mi benedii quel giorno. Da quel momento abolii i pantaloni bianchi a fine mese, non si sapeva mai come li prendeva a Fausto. Sì, li ho dato un nome per finezza. Il sol pensiero delle mestruazioni mi dà allo stomaco, letteralmente. Mi innervosisce il fatto di dover andare ogni cinque minuti al bagno, mi stressa ciò e non il ciclo in sé, o i dolori del secondo giorno, quelli che ti prendono alla schiena tanto da farti pensare che stai morendo. Ma no, era solo il mondo femminile che ti si ritorceva contro in un solo giorno. Odiavo essere donna, solo in quell'arco di tempo a fine del mese. Per il resto, mi andava bene.
Uscii dal bagno, raggiungendo l'armadio in modo da prendere dei vestiti puliti. Il mio stomaco era in subbuglio e la schiena stava già mostrando i primi secondi di una lunga tortura. Sospirai con forza, afferrando un paio di jeans larghi, ovviamente neri, e una maglia che infilai nei jeans una volta indossati. Allacciai le scarpe ai piedi, mi truccai con un filo di fondotinta e mascara. Legai due ciocche di capelli in un piccolo chignon, lasciando il resto della chioma libera, e afferrai lo zaino assieme al giubbotto di pelle. Portai le cuffie nelle orecchie, gli occhiali da sole sul naso ed uscii dalla stanza con la musica che mi stava letteralmente rincoglionendo già di prima mattina. Preferivo mille volte che fossero le canzoni degli Arctic Monkeys, o di qualche altra band, a mandarmi in frantumi il cervello alle sette e mezza del mattino che mia madre, Joe e papà con le loro strane manie mattutine. Entrai in cucina e afferrai una mela dal cesto della frutta, sperando che nessuno mi rivolgesse parola e che mi lasciasse in pace. Il mio desiderio venne infranto da mio fratello, il quale tolse una cuffietta dal mio orecchio e mi sorrise. Come fa ad essere così attivo e sorridente di prima mattina? Io, manco sveglia, che avevo bisogno della mia tranquillità. Lui, era già una molla carica. Eravamo proprio l'opposto. Ripresi la cuffia dalla sua mano e cercai di scansarlo, in modo da andarmene. Mi bloccò il polso nella mano e mi tirò su uno sgabello in modo che mi potessi sedere e far colazione con la nostra allegra famiglia. Sbuffai, prendendo il cellulare dalla tasca e iniziando a scorrere i messaggi, Zayn non passerà a prendermi quella mattina. Niente corsa mattutina sulla sua moto, non la facevamo da una settimana a dire il vero. Non gli risposi e andai avanti con i messaggi.
Sentii una presenza al mio fianco, girai la testa e vidi mia sorella Leila con gli occhi stanchi e le guance rosse. Nessuno le chiese niente, come sempre in questa famiglia. Sospirai, scendendo dallo sgabello e afferrando mia sorella da sotto le ascelle per poi prenderla in braccio. Si aggrappò a me, come se fosse un koala e portò il viso nel collo sospirando distrutta per qualcosa che nessuno sapeva. Presi il suo zaino, poggiato accanto alla porta d'ingresso, ed uscii con lei in braccio. L'aria era fresca mi fece bene al corpo e sentii Leila stringersi sempre di più a me. Lei preferiva il caldo, non come me: amante del freddo e della neve perenne. Una vera ragazza di Grande Inverno.
Portai Leila con me, dietro casa e dentro il garage. La poggiai sul tavolo da lavoro di papà e la guardai, togliendo le cuffie dalle orecchie appena spenta la musica. Lei si asciugò gli occhi, tirando su col naso e mi guardò alzando le spalle.
<<Le principesse non dovrebbero piangere. Una fatina si spegne, se loro piangono>> nonna Rose me lo diceva sempre quando ero piccola. Le rispondevo che non ero una principessa, che non volevo esserlo e che non lo sarei stata. Non mi sono mai piaciute, se non la mia bellissima Lady Diana.
<<A nessuno importa di questa principessa, però>> mormorò lei, in tono dolce e triste. Avevo capito dove voleva andare a parare, e da una parte aveva ragione. Ha quasi cinque anni, mamma non la calcolava più di tanto per via del lavoro, del matrimonio, di Liam. Quest'ultimo era un continuo università-matrimonio-Maya-lavoro. Joe era costantemente chiusa in camera a studiare, facendomi venire il dubbio "io studiavo così tanto alla sua età?".
<<Ci sono io, lo sai vero?>> qualcuno doveva pur prendersi cura di lei, rimanevo io dato che anche papà, ultimamente, non tornava a casa prima delle undici di sera. Il lavoro sfiancava i miei genitori e lo studio prendeva in ostaggio Liam, Joe e me. Leila l'anno prossimo avrebbe iniziato le elementari e nessuno le stava accanto, nessuno la preparava per il cambiamento. Allora decisi che dovevo essere io la sua guida, ero sempre la prima della classe e le mie conoscenze sulle basi scolastiche erano incise nella mia mente. Dovevo starle accanto, o sarebbe sprofondata prima di Natale.
<<Stai sempre con i tuoi fidanzati, a casa ci sei poco. Non ci sei mai>> sussurrò, lasciando che l'ennesimo pezzo del mio cuore raggiungesse il fondo, assieme agli altri ottocento pezzi. Aveva ragione anche su questo, ma io ero l'unica che si accorgeva che la più piccola della famiglia veniva messa da parte. Sospirai, sollevandomi con la schiena e mi guardai attorno per poi farmi venire un'idea. Mi allontanai da lei per un secondo, afferrando uno scatolone con scritto il nome di Leila in stampatello. Mio padre era preciso in queste cose, in tutto. Come me, d'altronde.
Aprii il cartone, girando con le mani nelle cianfrusaglie di mia sorella e trovai quello che cercavo nel fondo dell'abisso. Nonna Teta, che riposi in pace, li avrebbe chiamati Sciji, in dialetto pugliese. Tornai da mia sorella e le passai il casco con disegnati sopra i personaggi del suo cartone preferito, del quale non ricordai il nome.
<<Non posso andare in bici, ho scuola>> mi rispose, prendendo il casco con scetticismo. Ridacchiai, scuotendo la testa divertita e la aiutai a scendere dal tavolo da lavoro.
<<Non andiamo in bici, Leila>> le risposi, togliendo il telo da sopra la moto e guardandola sorridendo. <<Ma a scuola, in moto>> continuai, vedendo il suo volto diventare un turbine emozioni. Urlò dalla felicità, precipitandosi verso di me e saltandomi addosso. La feci mettere davanti, dicendole di star attenta e di tenersi alle mie braccia. Mise il casco senza esitare, tutta elettrizzata, e una volta che mi misi dietro di lei, poggiò le mani sulle mie e le strinse come se fosse lei a guidare. Meritava la felicità, e una volta usciti dal garage urlò: <<Verso l'infinito e oltre!>> citando uno dei nostri cartoni Disney preferiti.

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