22. Fake smile

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Guardai a malapena i vestiti sparsi per la stanza. Lustrini, brillantini, merletti, pizzi di ogni colore. Mi stava scoppiando il cervello, la schiena sembrava essere stata spezzata in due, e ogni cinque minuti cambiavo posizione. La poltrona del negozio era scomoda, mia madre aveva in mano un bicchiere di champagne, seduta in modo seducente in uno dei divanetti rotondi, gambe accavallate e mano dietro la schiena per comodità. Capelli lucenti, ondulati e perfetti come se fosse appena uscita da René, la sua parrucchiera di fiducia. Indossava uno dei suoi tubini preferiti, non so di quale marca famosa, ma era impeccabile, come sempre. Mi facevano male i piedi solo a guardare le sue scarpe vertiginose, lucide e beige, le quali si abbinavano al mantello in pelle. Lei poteva fare la modella anche a cinquant'anni. Quarantasette, odiava mettere numeri in più nella sua età.
<<Kendall, dovresti scegliere il tuo vestito>> si girò lei, muovendo piano il bicchiere in modo teatrale. Alzai gli occhi al cielo, rimettendo le cuffie nelle orecchie e sollevandomi dalla poltrona scomoda. Stiracchiai la schiena, portando le braccia in alto e trattenendomi dallo sbadigliare. Ero rinchiusa in questo posto da circa un'ora, tempo il quale potevo spendere nello studio dato che il giorno dopo avrei avuto due verifiche abbastanza importanti. Sospirai con forza e mi incamminai verso un corridoio in modo da raggiungere le scale del piano di sopra. La cosa che più odiavo era fare shopping con mia madre, ma non superava di certo la scampagnata con lei, la futura suocera e la cognata perfetta. Pregai per tutto il tempo per Liam, il quale era circondato da femmine e gli unici maschi erano papà, il padre di Maya e il futuro cognato. Non sapevo nemmeno come si chiamasse, ma mi importava poco.
Mi guardai intorno, per poco non vomitai per tutto quel rosa che stava accecando i miei poveri occhi. Scossi la testa, girando a destra del corridoio in modo da cercare il giusto colore per il matrimonio. Mancavano solo tre mesi, non era difficile trovare il vestito per l'occasione, ma mia madre continuava a tartassarmi con la sua solita frase: meglio prevenire che curare. Allora mi arresi e quel pomeriggio, invece di stare a casa, nel mio letto, con la musica e con vestiti comodi, vestendomi elegante solo per quell'occasione. Odiavo dover apparire decente per conto di mamma, ma da una parte la capii: il padre di Maya era un avvocato di importanza. Aveva uno studio tutto suo in America e da poco ne aveva aperto uno a Londra, in centro. La capivo, almeno credevo, che voleva mostrarsi all'altezza della futura famiglia di suo figlio. Chissà se avrebbe fatto tutte queste moine anche con la famiglia del mio futuro marito... Scossi ancora il capo e ripresi la ricerca del vestito. I colori del matrimonio erano: bianco, oro e rosa cipria. Non avrei mai indossato un vestito rosa, il bianco era abolito ai matrimoni per rispetto verso la sposa. L'unica opzione era l'oro, il quale mi stava abbastanza bene date le tonalità della mia carnagione. Mi fermai a guardare le varie opzioni: troppo lunghi, troppo corti, troppo scollati, troppo semplici. Dovevo andare a parare su qualcosa il quale mia madre non avrebbe cercato di sminuire: il vestito perfetto.
Feci scorrere le dita sulle stoffe: velluto, seta, cotone, tulle, brillantini sulle mani. Gli abiti erano perfetti, eccezionali, ma ero nella testa della mamma in quel momento e mi convincevo che non erano adatti. Almeno per lei, ma la capivo: ero la testimone di nozze di mio fratello, il che significava che dovevo essere all'altezza di Liam e Maya. E dei fotografi insieme a tutto internet, mi ricordò la testa. Vero, la famiglia Henry era famosa quanto la regina Elisabetta -più o meno- e non immaginavo il macello che ci sarebbe stato quel giorno, fuori la chiesa, e il gossip su internet era quello che mi preoccupava di più. I giornalisti avevano sempre la loro da dire.
Sospirai, ormai arresa nella ricerca e mi buttai su una delle poltrone scomode di quella sala. Ariana Grande scorreva veloce nella playlist, lasciandomi viaggiare in un mondo ormai lontano da quello in cui ero. Pensai a quanto complicata stesse diventando la cosa, avevo solo diciassette anni ed ero stata messa in mezzo a più problemi in poche ore, in pochi giorni, che in diciassette anni di vita. Il matrimonio era una delle ultime, ma non sapevo cosa mettere al primo posto. Il mese prossimo lo avrei passato in collegi diversi, cercando di capire se -effettivamente- dovevo continuare gli studi o meno. Ero confusa, studiare mi piaceva, ma non volevo finire come mio fratello: le sessioni d'esame erano micidiali, ne aveva una al mese e la cosa mi metteva ansia. Avevo anche bisogno del mio tempo, studiavo senza problemi, sì, ma se poi non mi fosse piaciuto ciò che avrei preso? Ero confusa, nessuno mi illuminava sulle altre facoltà e la cosa mi preoccupava. Questo era al terzo posto della lista.
Al secondo c'era la mia famiglia, assente la maggior parte delle volte, ma quello non era il problema principale. Leila aveva bisogno di stabilità, di una guida e mi ero presa la briga di aiutarla, in modo che capisse ciò che era giusto o sbagliato. La accompagnavo a scuola, avevo preso il compito di farlo da soli due giorni e mi piaceva. A lei piaceva, perché la portavo con la moto. Mamma, stranamente, era felice che mi prendessi cura di Leila: lei non poteva, perciò facevo la brava figlia per il bene di mia sorella. Al primo posto, c'era la questione Harry. Era impazzito, mi fece rimanere male quando mi propose quell'accordo e la voglia che avevo di riaverlo, si tramutò in paura. Paura di stare con lui, era imprevedibile come ragazzo. Delle volte mi sembrava bipolare o qualcosa del genere, delle volte sembrava stare bene quando, invece, aveva l'inferno nella testa. Lo conoscevo poco, ma mi sembrava di vedere mia madre in lui. Sì, mia madre, forse un pochino peggio o meglio. Sta di fatto che Harry mi piaceva, mi piaceva tutt'ora, ma sperai vivamente che fosse Luke a vincere quella maledetta gara. Non perché volessi stare con lui, ma sapeva perfettamente come sarei stata assieme ad Harry, soprattutto se fosse stata una relazione forzata, la nostra. Ecco perché io e il biondo stavamo andando d'amore e d'accordo nell'ultimo periodo: mi conosceva abbastanza da capirmi. Era diventato un secondo Zayn, ma almeno Luke c'era. Sospirai, continuando a pensare che avevamo rovinato tutto nonostante lui dicesse l'esatto contrario. Ma si vedeva che non era così.
Scossi la testa, alzandomi dalla poltrona scomoda e ripresi ad ascoltare la voce di Ariana nelle cuffie, concentrandomi sui vestiti. E poi lo vidi, scorrendo con le dita -per la seconda volta- sugli abiti appesi alle sbarre argentate. L'abito perfetto, quello a cui mamma sarebbe piaciuto. Lo presi, della taglia giusta, e tornai nella sala principale dove Maya era appena uscita con indosso il suo vestito. Il suo, esatto.
Tolsi il sorriso dalle labbra, guardando la cognata perfetta nell'abito perfetto. Impassibile, come sempre, osservai come mia madre cercò di non piangere con scarsi risultati e si alzò, andando ad abbracciare la futura nuora. La sua figlia preferita, come diceva lei. Ingoiai un groppo alla gola, sentendo il pavimento mancare sotto i piedi e il soffitto crollarmi sulle spalle. Non era mai stata così affettuosa verso di me, mai stata così felice.
Maya era a dir poco stupenda, nel suo abito bianco con decorazioni dorate su tutto il corpetto a forma di cuore. Il decolté non era esagerato, era giusto. A me starebbe male per via del seno donatomi da zia Clarissa. La mamma lo odiava, diceva che sfigurava il mio corpo magro, assieme alle curve del sedere. Io non ero Maya, ecco cosa le dava fastidio. Guardai la sposa, bellissima con quel tulle che ricadeva in strascico lungo kilometri. Non era stretto, almeno non la gonna ampia. Le stava d'incanto, e all'improvviso mi sentii emarginata dalla mia stessa madre. Inutile, non mi avrebbe mai guardata come guardava LEI, o una delle mie amiche. Sospirai, rassegnandomi nel farle vedere l'abito che avevo scelto per lei, non per me. Da una parte. forse, ma mi ero impegnata per lei. Si girò, finalmente, e mi guardò cambiando subito umore. Mi analizzò, mi sentii così inadeguata nei miei stessi vestiti: avevo messo una gonna e un maglioncino corto solo per lei, per non sentirle dire con una delle sue solite frasi. Avevo anche lasciato il giubbotto di pelle a casa, infilando uno dei tanti cappotti eleganti. Non avevo messo le solite scarpe da ginnastica per compiacerla, ma gli anfibi per stare comunque comoda. Avevo fatto tutto per lei quel giorno, ma non arrivai in cima come Maya. Lei era intoccabile, insuperabile.
<<Hai visto com'è bella? Non credi che le stia bene? Disegnato apposta per il suo bellissimo corpo>> mi disse, facendomi sentire un rifiuto. Annuii soltanto, distogliendo lo sguardo da quel quadretto bellissimo composto da suocera e figlioccia. Le aveva permesso anche di chiamarla mamma, o Eli. Mi si rivoltò lo stomaco, ma dovetti trattenermi. Allora usai la mia solita scusa:
<<Sì, ma ora devo andare. Sai, devo studiare>> e mi lasciò andare, liquidandomi con un ''ok'' e si girò sorridente verso Maya elogiandola, venerandola, chiamandola ''la mia bambina''. Lasciai il vestito sulla poltrona, lo buttai più che altro, misi il cappotto e mi precipitai verso l'uscita in fretta, cambiando musica e rifugiandomi nei Queen, nella voce di Freddie e cercando di non mettermi a piangere per il nervoso. Non succedeva mai, solo quando raggiungevo il limite di ogni singola cosa. Non lo feci nemmeno in quel momento, percorrendo le strade di Londra. Non andai a casa, non sarei riuscita a concentrarmi nello studio. Presi la strada opposta, imboccandomi nel sentiero di campagna, fregandomi che fosse sera e che la luce stesse svanendo passo dopo passo. Vidi poi quella a led dell'insegna del locale, ormai vicina e a pochi passi. Sentii il corpo alleggerirsi, il cuore riprendere un battito regolare e gli occhi asciugarsi come per magia. Il colore accecante dell'insegna mi dava alla testa, ma una lettera lampeggiava: si stava fulminando. Presi un grosso respiro, pentendomene subito dato che l'odore di fogna era onnipresente in quella parte di città. Deserta, come sempre, la strada dei Jones regnava nel totale silenzio. Si sentiva a malapena la musica dentro il locale. Sulla porta in legno c'erano dei palloncini e la scritta 'non riceviamo clienti' attaccata sulla vernice ormai sbiadita. Sollevai lo sguardo, vedendo l'insegna Martin su di me. Sospirai, portando la mano sulla maniglia e spingendo con fatica la porta. Stavo facendo la cosa giusta?

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