capitolo 2 (prima parte)

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capitolo 2
SEGRETI E BUGIE

Il principe oscuro era seduto in sella al suo destriero nero, il mantello di zibellino che gli ricadeva dietro le spalle. Un cerchietto d'oro gli cingeva i riccioli biondi, il suo volto bellissimo era reso gelido dalla furia della battaglia e...
«E il suo braccio sembrava una melanzana» borbottò Clary esasperata. Non era proprio in vena di disegnare. Con un sospiro strappò un altro foglio dal suo blocco, lo appallottolò e lo lanciò contro la parete arancione della sua stanza. Il pavimento era già cosparso di palle di carta, segno che il suo talento creativo non stava dando certo il meglio di sé. Clary desiderò per la milionesima volta di essere un po' più simile a sua madre. Tutto ciò che Jocelyn Fray disegnava, dipingeva o schizzava era bello e, almeno in apparenza, non le costava il minimo sforzo.
Clary si levò le cuffie dalle orecchie interrompendo a metà Stepping Razor e si massaggiò le tempie doloranti. Fu solo a quel punto che si accorse del suono deciso e penetrante del telefono che echeggiava nell'appartamento. Gettò il blocco da disegno sul letto, saltò in piedi e corse in salotto, dove il telefono rosso in stile retrò era posto su un tavolino accanto alla porta d'ingresso.
«Parlo con Clarissa Fray?» La voce dall'altra parte del telefono aveva qualcosa di familiare, anche se non riuscì a identificarla subito.
Clary si rigirò nervosamente il filo del telefono tra le dita. «Sì?»
«Ciao, sono uno dei tagliagole col coltello che hai incontrato ieri sera al Pandemonium, hai presente? Ecco, temo di averti fatto una brutta impressione e speravo che tu volessi darmi una possibilità di rimediare...»
«SIMON!» sbottò Clary allontanando il ricevitore dall'orecchio mentre il suo amico scoppiava in una fragorosa risata. «Non è affatto divertente!»
«Cavoli se è divertente! È solo che tu sei una musona.»
«Cretino.» Clary sospirò e si appoggiò al muro. «Non rideresti se fossi stato qui questa notte quando sono tornata a casa.»
«Perché no?»
«Mia mamma. Non era troppo contenta che abbiamo fatto così tardi, ieri.
Ha sclerato. C'è stato un bel casino.»
«Ma mica era colpa nostra se c'era traffico!» protestò Simon. Era il minore di tre fratelli e aveva un senso dell'ingiustizia familiare decisamente sviluppato.
«Sì, be', lei non la vede così. L'ho delusa, l'ho fatta arrabbiare, l'ho fatta preoccupare, bla bla bla, sono il flagello della sua esistenza» disse Clary ripetendo le parole esatte di sua madre con un pizzico di senso di colpa.
«Quindi sei in castigo?» chiese Simon a volume un po' troppo alto. Clary sentiva il rombo sommesso delle voci dietro di lui: persone che parlavano una sull'altra.
«Ancora non lo so» disse lei. «Questa mattina è uscita con Luke e non sono ancora tornati. Ma tu dove sei? Da Eric?»
«Sì. Abbiamo appena finito le prove.» Un piatto risuonò dietro Simon. Clary fece una smorfia. «Eric farà un reading di poesie al Java Jones questa sera» proseguì Simon facendo riferimento a un locale vicino a casa di Clary dove talvolta suonavano dal vivo, la sera. «Noi del gruppo andiamo tutti a fare il tifo per lui. Vuoi venire?»
«Sì, dai.» Clary fece una pausa, strattonando nervosamente il filo del telefono. «No, aspetta, no.»
«Vi dispiace stare un po' zitti, ragazzi?» urlò Simon tenendo il telefono lontano dalla bocca. Un secondo dopo tornò a rivolgersi a Clary. Aveva un tono di voce preoccupato. «Era un sì o un no?»
«Non lo so.» Clary si morse un labbro. «Mia mamma è ancora arrabbiata con me. Non so se voglio farla incavolare ancora di più con un'altra richiesta. Se mi devo mettere nei guai non voglio che sia per quello schifo di poesie di Eric.»
«Ma dai, non sono così male» disse Simon. Eric abitava nella casa accanto alla sua e si conoscevano praticamente da sempre. Non erano amici come lui e Clary, ma avevano messo insieme una band all'inizio del secondo anno con due suoi amici, Matt e Kirk. Provavano tutti i santi sabati nel garage dei genitori di Eric. «E poi non è un favore» aggiunse Simon. «È una lettura di poesie a cinque isolati da casa tua, non è mica come se ti avessi invitato a un'orgia a Hoboken. Può venire anche tua mamma, se vuole.»
«Un'orgia a Hoboken!» urlò qualcuno in sottofondo, probabilmente Eric. Un altro colpo sui piatti. Clary immaginò sua madre che ascoltava le poesie di Eric ed ebbe un brivido.
«Non lo so. Se arrivate qui tutti quanti mi sa che potrebbe sclerare.»
«E allora ci vengo da solo. Ti passo a prendere, ci andiamo insieme a piedi, e con gli altri ci vediamo al locale. A tua mamma non dispiacerà. Mi adora.»
Clary non poté fare a meno di scoppiare a ridere. «Il che non depone a favore del suo buongusto, se proprio vuoi saperlo.»
«No, non voglio saperlo.» Simon rimise giù il telefono tra le urla dei suoi compagni di band.
Clary riappese e si diede un'occhiata attorno. Il salotto era costellato di prove materiali delle tendenze artistiche di sua madre, dai cuscini di velluto cuciti a mano, ammucchiati sul divano rosso scuro, ai dipinti incorniciati alle pareti. Erano soprattutto paesaggi: le strade sinuose di Downtown Manhattan accese da una luce dorata, le scene di Prospect Park in inverno, gli stagni grigi bordati di merletti di ghiaccio bianco.
Sul ripiano del caminetto c'era una cornice con una foto del padre di Clary. Era un uomo dalla carnagione chiara, con un'aria meditabonda. Agli angoli dei suoi occhi si intravedevano delle rughe d'espressione che lasciavano immaginare una personalità allegra. Aveva prestato servizio oltreoceano ed era stato decorato. Jocelyn teneva alcune sue medaglie in una scatoletta accanto al letto. Non che le medaglie fossero servite a qualcosa, quando Jonathan Clark Fray era andato a sbattere in macchina contro un albero alla periferia di Albany ed era morto prima ancora che sua figlia nascesse.
Jocelyn non parlava mai del padre di Clary. La scatola accanto al letto riportava le sue iniziali. All'interno c'erano le sue medaglie e decorazioni, una fede nuziale e una ciocca di capelli biondi. A volte Jocelyn tirava fuori la scatola, la apriva e teneva in mano la ciocca con grande delicatezza, dopodiché la rimetteva a posto e la chiudeva di nuovo nella sua scatola.
Il rumore della chiave che girava nella porta d'ingresso riscosse Clary dal suo sogno a occhi aperti. Si gettò sul divano e provò a darsi l'aria di essere immersa nella lettura di uno dei libri che sua madre aveva lasciato impilati sul tavolino. Jocelyn riteneva che la lettura fosse un passatempo sacro e di solito non interrompeva Clary nel mezzo di un libro nemmeno se aveva da rimproverarla.
La porta si aprì con un colpo secco. Era Luke, le braccia colme di quelli che sembravano grossi fogli quadrati di cartone. Quando li mise giù, Clary vide che erano scatoloni appiattiti. Luke si raddrizzò e si voltò verso di lei sorridendo.
«Ciao, zi... ciao, Luke» disse Clary. Più o meno un anno prima, lui le aveva chiesto di smettere di chiamarlo zio Luke, sostenendo che lo faceva sentire vecchio e che in ogni caso gli faceva venire in mente La capanna dello zio Tom. E poi, le aveva ricordato con gentilezza, lui non era veramente suo zio, era solo un ottimo amico di sua madre, che conosceva da una vita. «Dov'è la mamma?»
«Sta parcheggiando il furgone» disse lui, raddrizzando la sua figura allampanata con una specie di grugnito. Indossava la sua solita uniforme: vecchi jeans, camicia di flanella e un paio di occhiali dorati tutti storti che poggiavano sghembi sul naso. «Mi ricordi ancora una volta perché questo palazzo non ha l'ascensore?»
«Perché è vecchio e ha personalità» disse immediatamente Clary. Luke sorrise. «A cosa servono quegli scatoloni?»
Il sorriso di Luke scomparve. «Tua madre vuole mettere via un po' di cose» disse evitando il suo sguardo.
«Quali cose?» chiese Clary.
Lui scrollò le spalle. «Roba varia che c'è in giro per la casa. Cose che danno solo fastidio. Lo sai che tua madre non butta via niente. E tu cosa combini? Studi?» Le prese di mano il libro e lesse ad alta voce: «Il mondo pullula ancora di quelle creature eterogenee respinte da una filosofia più razionalistica. Fate, folletti, fantasmi e demoni vagano ancora...» Luke abbassò il libro e la guardò da sopra gli occhiali. «Lo leggi per la scuola?»
«Il ramo d'oro? No, niente scuola per due settimane.» Clary riprese il libro. «È della mamma.»
«Lo immaginavo.»
La ragazza lo rimise sul tavolino. Si sentiva inquieta. «Luke?»
«Sì?» Il libro era già dimenticato. Luke stava rovistando nella cassetta degli attrezzi accanto al camino. «Ah eccolo» disse, tirando fuori un aggeggio di plastica arancione per attaccare lo scotch e guardandolo con grande soddisfazione.
«Tu cosa faresti se avessi visto una cosa che nessun altro poteva vedere?»
L'attrezzo cadde dalla mano di Luke e colpì le piastrelle del caminetto. L'uomo si inginocchiò per raccoglierlo, senza guardare Clary. «Vuoi dire se fossi stato l'unico testimone di un crimine o una cosa del genere?»
«No. Voglio dire se c'erano delle persone che potevi vedere soltanto tu.
E che per tutti gli altri erano invisibili.»
Luke esitò, ancora in ginocchio, l'attrezzo per lo scotch stretto in mano.
«Lo so che sembra una cosa folle» abbozzò Clary. «Ma...»
Luke si voltò. I suoi occhi azzurrissimi dietro le lenti si fissarono su di lei con un'espressione di profondo affetto. «Clary, tu sei un'artista, come tua madre. Questo vuol dire che vedi il mondo in modo diverso dalle altre persone. È il tuo dono vedere la bellezza e l'orrore delle cose di tutti i giorni. Non sei pazza per questo... soltanto diversa. E non c'è niente di male a essere diversi.»
Clary si strinse le gambe al petto e appoggiò il mento alle ginocchia. Nella sua mente visualizzò il magazzino, la frusta dorata di Isabelle, il ragazzo coi capelli blu che moriva tra le convulsioni e gli occhi fulvi di Jace. Bellezza e orrore. Disse: «Se mio papà fosse ancora vivo, pensi che sarebbe stato un artista anche lui?»
Luke parve colto di sorpresa da quella domanda. Prima che potesse rispondere, la porta si spalancò e la madre di Clary entrò di gran carriera nella stanza, i tacchi degli scarponcini che ticchettavano sul parquet lucido. Diede a Luke un tintinnante mazzo di chiavi e si voltò a guardare la figlia.
Jocelyn Fray era una donna dal fisico snello e sodo, coi capelli leggermente più scuri e molto più lunghi di quelli di Clary. Al momento erano raccolti in uno chignon infilzato da una matita. Indossava una salopette sporca di vernice, una maglietta color lavanda e degli scarponcini da trekking cosparsi di colori a olio. I suoi occhi blu scintillavano dietro un paio di grandi occhiali da sole vecchio stile.

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