Capitolo 22 (1^parte)

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capitolo 22
LE ROVINE DI RENWICK

Per un lungo momento dopo che Luke ebbe terminato di parlare, nella stanza regnò il silenzio. Gli unici suoni erano il lieve sgocciolio dell'acqua lungo le pareti piastrellate e lo scoppiettio del fuoco nel camino. Alla fine
Luke disse: «Di' qualcosa, Clary.»
«E cosa vuoi che dica?»
L'uomo sospirò. «Magari che adesso capisci?»
Clary sentiva il sangue che le pulsava nelle orecchie. Si sentiva come se la sua vita fosse stata costruita su una lastra di ghiaccio sottile come un foglio di carta e ora quel ghiaccio stava iniziando a creparsi, minacciando di gettarla nel buio gelido sotto di lei. Nell'acqua scura, pensò, dove tutti i segreti di sua madre galleggiavano nella corrente, i relitti mai dimenticati di una vita naufragata.
Sollevò lo sguardo su Luke. Sembrava vacillante, indistinto, come se lo vedesse attraverso uno strato d'acqua. «Mio padre» disse. «La fotografia che la mamma ha sempre tenuto sul camino...» «Quello non era tuo padre» disse Luke.
«È mai esistito, almeno?» Clary alzò la voce. «È mai esistito un John Clark Fray o mia mamma si è inventata anche lui? Perché io ho visto la foto... le sue medaglie dell'esercito...»
«John Clark Fray è esistito. Ma non era tuo padre. Era il figlio di due vicini di tua madre quando vivevate nel West Village. Morì durante delle manovre militari in Medio Oriente, ma lei non l'ha mai conosciuto. Aveva la sua foto perché i vicini le avevano commissionato un suo ritratto in uniforme. Diede loro il ritratto ma si tenne la foto e finse che quell'uomo fosse tuo padre. Penso che le sembrasse più facile così... in fondo, se ti avesse detto che era scappato o scomparso, avresti voluto cercarlo. Un uomo morto...»
«Non verrà mai a contraddire le tue bugie» terminò la frase Clary, amareggiata. «Non ha pensato che fosse sbagliato farmi credere per tutti quegli anni che mio padre era morto, quando il mio vero padre...»
Luke non disse nulla e lasciò che fosse lei a trovare la fine di quella frase, che fosse lei a pensare da sola quel pensiero impensabile.
«È Valentine.» Le tremò la voce. «È questo che mi stai dicendo, vero? Che Valentine era... è... mio padre?»
Luke annuì, le dita intrecciate l'unico segno della tensione che provava. «Sì.»
«Oh, mio Dio.» Clary balzò in piedi. Non riusciva più a stare ferma. Si avvicinò a grandi passi alle sbarre della cella. «Non è possibile. Non è proprio possibile.»
«Clary, per favore, non agitarti...»
«Non agitarti? Mi stai dicendo che mio padre è un Signore del Male e vuoi che non mi agiti?»
«Non era malvagio, all'inizio» disse Luke come se volesse giustificarlo.
«Oh, scusa se non sono d'accordo, sai? Io penso che fosse chiaramente malvagio. Tutta quella roba che andava in giro a dire sul mantenere pura la razza umana e sull'importanza di un sangue non corrotto... Era come uno di quei nazisti invasati. E voi due ci siete cascati in pieno.»
«Non ero io a parlare di "viscidi Nascosti", pochi minuti fa» disse Luke a bassa voce. «O di come non ci si possa fidare di loro.»
«Non è la stessa cosa!» Clary sentiva di essere sul punto di scoppiare a piangere. «Avevo un fratello» proseguì appena trovò la calma sufficiente per riprendere a parlare. «E dei nonni. Sono morti?»
Luke annuì guardandosi le grandi mani posate in grembo. «Sono morti.»
«Jonathan» disse lei con un filo di voce. «Sarebbe stato più grande di me di un anno, giusto?»
Luke non rispose nulla.
«Ho sempre voluto un fratello.»
«Non torturarti» disse Luke con un'espressione triste. «Lo capisci perché tua madre non ti ha mai detto nulla, vero? A cosa ti sarebbe servito sapere cosa avevi perso ancora prima di nascere?»
«Quella scatola» disse Clary con la mente che funzionava a velocità folle. «Quella con su scritto J.C. Jonathan Christopher. Era su quella scatola che stava piangendo, su quella ciocca di capelli... era di mio fratello, non di mio padre.»
«Sì.»
«E quando hai detto "Clary non è John"... parlavi di mio fratello. Mia mamma era iperprotettiva con me perché le era già morto un figlio.»
Prima che Luke potesse rispondere, la porta della cella si aprì ed entrò Gretel. Il kit del pronto soccorso, che Clary aveva immaginato come una scatola di plastica con sopra una croce rossa, si rivelò essere qualcosa di simile a un vassoio di legno carico di bende piegate, ciotole fumanti di liquidi non identificati ed erbe che diffondevano un profumo aspro e pungente. Gretel appoggiò il vassoio accanto alla branda e fece segno a Clary di sedersi, cosa che la ragazza fece controvoglia.
«Brava ragazza» disse la donna-lupo intingendo un panno in una delle ciotole e portandolo al volto di Clary. Le lavò via delicatamente il sangue secco. «Cosa ti è successo?» chiese con un'aria contrariata, come se pensasse che Clary si era grattugiata la faccia apposta.
«Me lo stavo chiedendo anch'io» disse Luke mentre osservava la scena a braccia conserte.
«Hugo mi ha attaccata.» Clary cercò di non ritrarsi, mentre il liquido aspro le faceva bruciare le ferite.
«Hugo?» Luke sbatté le palpebre.
«Il corvo di Hodge. O almeno credo fosse suo. O forse era di Valentine.»
«Hugin» disse Luke sottovoce. «Hugin e Munin erano gli uccelli da caccia di Valentine. I loro nomi significano Pensiero e Memoria.»
«Be', dovrebbero significare Attacca e Uccidi» disse Clary. «Hugo mi ha quasi strappato gli occhi.»
«È quello che è addestrato a fare.» Luke stava tamburellando con le dita di una mano su un braccio. «Hodge deve averlo preso dopo la Rivolta. Ma è una creatura di Valentine.»
«Proprio come Hodge» disse Clary con una smorfia, mentre Gretel le puliva il lungo taglio sul braccio, incrostato di polvere e sangue secco, e iniziava a fasciarla.
«Clary...»
«Non voglio più parlare del passato» lo aggredì lei. «Voglio sapere cosa faremo adesso. Ora Valentine ha due ostaggi... e la Coppa. E noi non abbiamo niente.»
«Non direi che non abbiamo niente» disse Luke. «Abbiamo un piccolo esercito. L'elemento problematico è che non sappiamo dove sia Valentine.»
Clary scosse il capo, qualche ciuffo le ricadde sugli occhi e lei se lo spinse indietro con un gesto impaziente. Dio, quanto era sporca! La cosa che desiderava più di ogni altra (be', quasi più di ogni altra) era una doccia.
«Valentine non ha una specie di nascondiglio? Un covo segreto?»
«Se lo ha» rispose secco Luke «è stato molto bravo a tenerlo segreto.»
Gretel lasciò andare Clary, che mosse il braccio con cautela. Il balsamo verdastro che le aveva spalmato sul taglio aveva ridotto molto il dolore, ma si sentiva ancora il braccio rigido e legnoso. «Aspetta un secondo» mormorò Clary.
«Non ho mai capito perché la gente dica frasi del genere» disse Luke.
«Non me ne sto affatto andando.»
«Valentine è da qualche parte a New York. Questo lo dicono tutti.»
Luke annuì. «Così pare.»
«Quando l'ho visto all'Istituto, è uscito da un Portale. Magnus ha detto che ci sono solo due Portali a New York, uno da Dorothea e uno da Renwick. Quello a casa di Dorothea è stato distrutto, e comunque non me lo vedo Valentine a nascondersi lì, per cui...»
«Renwick?» Luke sembrava sconcertato. «Nessun Cacciatore si chiama
Renwick.»
«E se Renwick non fosse una persona?» disse Clary. «Se fosse un posto? Tipo un ristorante o un albergo o qualcosa del genere.»
Gli occhi di Luke si allargarono all'improvviso. Si voltò verso Gretel, che si stava avvicinando con il kit del pronto soccorso. «Portami l'elenco del telefono» disse.
Lei si bloccò, mostrandogli il vassoio con aria accusatoria. «Ma, signore, le sue ferite...»
«Dimenticati delle mie ferite e vai a prendermi l'elenco del telefono» scattò lui. «Siamo in una stazione di polizia, maledizione, ci saranno decine di vecchi elenchi, no?»
Con un'espressione di sdegnata esasperazione, Gretel appoggiò il vassoio sul pavimento e uscì dalla stanza a passo di marcia. Luke guardò Clary da sopra gli occhiali, che gli erano un po' scivolati giù per il naso. «Bella pensata.»
Lei non rispose. Aveva come un nodo al centro dello stomaco e stava cercando di respirare nonostante quell'ingombrante presenza. L'accenno di un pensiero le solleticò i confini della coscienza: voleva trasformarsi in un'idea chiara e definita, ma lei lo cacciò giù. Non poteva permettersi di usare le sue risorse e le sue energie per qualsiasi cosa oltre a ciò che stava facendo.
Gretel tornò con delle Pagine Gialle dall'aria umidiccia e le lanciò a Luke. Lui aprì il volume stando in piedi, mentre la donna-lupo medicava il suo fianco ferito con bende e unguenti. «Sull'elenco ci sono sette Renwick» disse dopo un po'. «Nessun ristorante, albergo o altro.» Si spinse sul naso gli occhiali, che scivolarono giù subito dopo. «Non sono Shadowhunters» aggiunse «e mi sembra improbabile che Valentine stabilisca il proprio quartier generale nella casa di un mondano o di un Nascosto. Anche se forse...»
«Hai un telefono?» lo interruppe Clary.
«Non qui.» Luke, con ancora in mano le Pagine Gialle, rivolse un'occhiata a Gretel. «Puoi andare a prendere il telefono?»
Con uno sbuffo disgustato, la donna gettò sul vassoio il pugno di panni insanguinati che aveva in mano e uscì un'altra volta dalla stanza. Luke appoggiò sul tavolo l'elenco telefonico, raccolse la benda arrotolata e iniziò ad avvolgersela attorno al taglio diagonale che gli attraversava il costato.
«Scusa» disse a Clary che lo stava fissando. «Lo so che è disgustoso.»
«Se troviamo Valentine» chiese la ragazza all'improvviso «possiamo ucciderlo?»
Luke lasciò quasi cadere le bende. «Cosa?»
Lei giocherellò con un filo che spuntava dalla tasca dei jeans. «Ha ucciso mio fratello e i miei nonni. Non è così?»
Luke appoggiò sul tavolo le bende e si abbassò la camicia. «E uccidendolo cosa pensi di fare? Di cancellare tutto quanto?»
Gretel tornò prima che Clary potesse dire altro. Aveva un'espressione da martire e portava in mano un vecchio cellulare scassato. Clary si chiese chi pagasse le bollette del telefono. Luke? L'Associazione Americana Licantropi?
«Fammi fare una telefonata» disse allungando una mano.
Luke parve esitante. «Clary...»
«Riguarda Renwick. Ci vorrà un secondo.»
Lui le consegnò il telefono senza molta convinzione. Lei compose un numero dando le spalle a Luke per avere l'illusione di un po' di privacy.
Simon rispose al terzo squillo. «Pronto?»
«Sono io.»
La voce del ragazzo salì di un'ottava. «Stai bene?» «Abbastanza. Perché? Hai sentito Jace e gli altri?»
«No, è che tu mi chiami solo quando c'è qualcosa che non va. E comunque cosa avrebbe dovuto dirmi Jace? C'è qualcosa che non va? È Alec?»
«No» disse Clary. Non voleva mentire e dire a Simon che Alec stava bene. «Non è Alec. Senti, ho bisogno che cerchi una cosa su Google per me.»
Simon sbuffò. «Stai scherzando? Non ce l'hanno un computer all'Istituto? No, guarda, non rispondere, è meglio.» Clary sentì il rumore di una porta che si apriva e il miagolio del gatto della madre di Simon che veniva sloggiato dalla sua postazione sopra la tastiera del computer nello studio. Si immaginò Simon che si sedeva, le dita che si muovevano veloci sui tasti. «Cosa ti devo cercare?»
Glielo disse. Sentì lo sguardo preoccupato di Luke su di sé mentre parlava. Era lo stesso modo in cui la guardava quando aveva undici anni e le era venuta una febbre da cavallo. Le aveva portato dei cubetti di ghiaccio da succhiare e le aveva letto i suoi libri preferiti, facendo tutte le voci dei personaggi. Clary si chiese perché l'avesse fatto. Non erano parenti. Non erano nulla l'uno per l'altra, soprattutto non nel mondo del Conclave, dove contava solo il sangue.
«Hai ragione» disse Simon distogliendola dai suoi pensieri. «È un posto.
O almeno era un posto. Adesso è abbandonato.»
La mano sudata di Clary scivolò sul cellulare e dovette stringere la presa. «Dimmi tutto.»
«Il più famoso di una lunga serie di manicomi, carceri per debitori e ospedali costruiti su Roosevelt Island nell'Ottocento» lesse Simon obbediente «è il Renwick Smallpox Hospital, progettato dall'architetto newyorkese Jacob Renwick per ospitare le vittime in quarantena dell'incontrollabile epidemia di vaiolo che colpì Manhattan. L'eccezionale architettura gotica fu costruita interamente sfruttando il lavoro dei carcerati del vicino penitenziario di Blackwell's Island. Nel corso del Novecento l'ospedale fu abbandonato e cadde in rovina. L'accesso alla struttura, inquietante e priva di tetto, è vietato.»
«Va bene, basta così» disse Clary col cuore che batteva all'impazzata. «Direi che ci siamo. Ma ci vive qualcuno, a Roosevelt Island?»
«Mica tutti abitano nei quartieri alti, principessa» disse Simon con finto sarcasmo. «Hai bisogno di un passaggio?»
«No!» La sua risposta esplosiva sorprese anche lei. «È tutto a posto, non mi serve niente. Volevo solo l'informazione.»
«Va bene.» Simon sembrava un po' ferito, pensò Clary, ma si disse che non aveva importanza. Ciò che importava è che restasse a casa, al sicuro.
Interruppe la chiamata e si voltò verso Luke. «C'è un ospedale abbandonato all'estremità meridionale di Roosevelt Island. Si chiama Renwick.
Penso che Valentine sia lì.»
Luke si spinse di nuovo in su gli occhiali. «Blackwell's Island. Ma certo.»
«Cosa c'entra Blackwell's Island? Ti ho detto...»

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