Capitolo 11 (2^parte)

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«Non credo che ci siano molti stregoni di nome Magnus, in questa zona degli Stati Uniti» gli fece notare Jace.
Alec sbatté gli occhi. «Questo significa che dobbiamo andare a una festa?»
«Non dobbiamo fare un bel niente» disse Jace, che stava leggendo le parti scritte in piccolo dell'invito. «Ma secondo quello che si dice, Magnus è il Sommo Stregone di Brooklyn.» Guardò Clary. «Per quanto mi riguarda sono abbastanza curioso di scoprire cosa ci faccia il nome del Sommo Stregone di Brooklyn nella tua testa. Tu no?»

La festa non sarebbe iniziata prima di mezzanotte, così, alla prospettiva di aspettare per diverse ore, Jace e Alec sparirono nell'armeria, mentre Isabelle e Simon annunciarono che sarebbero andati a fare una passeggiata a Central Park, così lei avrebbe potuto mostrargli i circoli delle fate. Simon chiese a Clary se volesse andare con loro. Reprimendo una rabbia assassina, Clary disse che era troppo stanca.
Non era esattamente una bugia: si sentiva effettivamente esausta e il suo corpo era ancora indebolito dai postumi del veleno e della levataccia. Si sdraiò sul suo letto all'Istituto, scalciò via le scarpe e cercò di dormire, ma il sonno non voleva saperne di arrivare. La caffeina frizzava nelle sue vene come acqua gassata e la sua mente era piena di immagini frenetiche e terrificanti. Continuava a vedere il volto di sua madre che la guardava dall'alto, la sua espressione spaventata. Continuava a vedere le Stelle Parlanti, a sentire nella propria mente le voci dei Fratelli Silenti. Perché c'era un blocco nella sua testa? Chi poteva avercelo messo? E a che scopo? Quali ricordi poteva aver perso? Quali esperienze aveva dimenticato? O forse tutto ciò che credeva di conservare nella memoria era solo una bugia?
Si mise a sedere, incapace di tollerare oltre quei pensieri. Uscì in corridoio a piedi nudi e si diresse verso la biblioteca. Forse Hodge poteva aiutarla, ammesso che si trovasse lì.
Ma la biblioteca era deserta. La luce del pomeriggio entrava attraverso le tende aperte, disegnando sbarre scure sul pavimento. Sulla scrivania giaceva il libro che Hodge aveva letto prima, la copertina di pelle consunta che luccicava leggermente. E accanto a esso Hugo dormiva sul suo trespolo, il becco infilato sotto un'ala.
Mia madre conosceva quel libro, pensò Clary. Lo ha toccato, lo ha letto. Il desiderio di tenere in mano qualcosa che aveva fatto parte della vita di sua madre fu come un colpo alla bocca dello stomaco. Attraversò velocemente la stanza e posò le mani sul libro. Era tiepido, la pelle riscaldata dal sole. Sollevò la copertina.
Un foglio piegato in due scivolò fuori dalle pagine e fluttuò sul pavimento, fra i suoi piedi. Si chinò per raccoglierlo e lo aprì.
Era la fotografia di un gruppo di persone giovani, al massimo dell'età di Clary. Capì che era stata scattata almeno vent'anni prima, non grazie agli abiti - che, come la maggior parte delle cose indossate dai Cacciatori, erano neri e semplici - ma perché riconobbe immediatamente sua madre: Jocelyn, che avrà avuto non più di diciassette o diciott'anni, con i capelli che le arrivavano a metà schiena, il volto un po' più rotondo e il mento e la bocca meno definiti. È identica a me, pensò Clary confusa.
Jocelyn stava abbracciando un ragazzo che Clary non riconobbe. Fu un piccolo shock. Non aveva mai pensato a sua madre con un uomo che non fosse suo padre. Jocelyn non usciva mai con nessuno e non sembrava affatto interessata all'altro sesso. Non era come la maggior parte delle madri single che passavano al setaccio i consigli di classe alla ricerca di maschi appetibili, o come la mamma di Simon, che non faceva altro che controllare la propria scheda su un sito di annunci personali. Quel ragazzo era bello, coi capelli tanto chiari da sembrare bianchi e gli occhi neri.
«È Valentine» disse una voce accanto a lei. «Quando aveva diciassette anni.»
Clary fece un salto e lasciò quasi cadere la foto. Hugo gracchiò infastidito e si risistemò sul suo trespolo, con le penne arruffate.
«Scusami» disse Clary rimettendo la foto sulla scrivania e arretrando velocemente. «Non avevo intenzione di sbirciare tra le tue cose.»
«Non c'è problema.» Hodge toccò la foto con la sua mano piena di cicatrici e rovinata dal tempo, uno strano contrasto col candore immacolato dei suoi polsini. «In fondo è un pezzo del tuo passato.»
Clary si riavvicinò alla scrivania, come se la foto esercitasse un'attrazione magnetica su di lei. Il ragazzo coi capelli bianchi della foto stava sorridendo a Jocelyn, con gli occhi un po' socchiusi come fanno i ragazzi verso qualcuno che li attrae parecchio. Clary pensò che nessuno l'aveva mai guardata a quel modo. Valentine, con i suoi tratti freddi e delicati, aveva un aspetto del tutto diverso da suo padre, col suo volto aperto e i capelli accesi che lei aveva ereditato. «Valentine mi sembra... carino.»
«Non lo definirei carino» disse Hodge con un sorriso amaro. «Ma era affascinante e intelligente, e molto persuasivo. Riconosci qualcun altro?»
Clary guardò di nuovo la foto. Alle spalle di Valentine, sulla sinistra, c'era un ragazzo magro con una zazzera marrone. Aveva le spalle larghe e la posa sgraziata di chi non ha ancora finito di crescere. «Quello sei tu?»
Hodge annuì. «E...»
Clary dovette guardare due volte la foto prima di identificare un altro volto noto, tanto giovane da essere quasi irriconoscibile. Alla fine furono gli occhiali a tradirlo, e gli occhi che stavano dietro di essi, azzurri come il mare. «Luke» disse.
«Lucian. E qui...» Hodge si chinò sulla foto e indicò una coppia di ragazzi dall'aria elegante, entrambi coi capelli scuri, lei più alta di lui di una mezza testa. I tratti della ragazza erano affilati e rapaci, quasi crudeli. «I Lightwood» disse. «E questo...» Indicò un bel ragazzo abbronzato, coi capelli scuri e ricci e la mascella squadrata. «... è Michael Wayland.» «Non assomiglia per niente a Jace» notò Clary.
«Ha preso tutto da sua madre.»
«Ma questa è tipo una foto di classe?» chiese Clary.
«Non esattamente. È una fotografia del Circolo, scattata nell'anno in cui fu fondato. È per questo che Valentine, il capo, è davanti agli altri, e Luke è alla sua destra: era il comandante in seconda di Valentine.»
Clary distolse lo sguardo. «Non riesco ancora a capire perché mia madre sia entrata in un'organizzazione del genere.»
«Tu devi capire...»
«Continui a ripeterlo» disse Clary piccata. «Non vedo cosa ci sia da capire. Tu dimmi la verità e io deciderò cosa pensarne.»
L'angolo della bocca di Hodge ebbe uno spasmo. «Come vuoi.» Fece una pausa per allungare una mano e accarezzare Hugo, che zampettava impettito lungo il bordo della scrivania. «Gli Accordi non hanno mai avuto il sostegno di tutto il Conclave. Soprattutto le famiglie più venerabili rimpiangevano i vecchi tempi in cui i Nascosti venivano uccisi. Non solo per odio, ma anche perché li faceva sentire più sicuri: è più facile affrontare una minaccia come una massa, un gruppo, e non come individui da valutare uno per uno... E la maggior parte di noi conosceva qualcuno che era stato ferito o ucciso da un Nascosto. Sai, non c'è nulla» aggiunse «che regga il confronto con l'assolutismo morale dei giovani. È facile, quando sei un ragazzino, credere nel bene e nel male, nella luce e nel buio. Valentine non perse mai queste caratteristiche: né il suo idealismo distruttivo né il suo appassionato disprezzo per qualsiasi cosa considerasse "non umana".» «Però amava mia madre» disse Clary.
«Sì» rispose Hodge. «Amava tua madre. E amava Idris...»
«Cosa c'era di così speciale a Idris?» chiese Clary, sentendo l'irritazione nella propria voce.
«Era...» iniziò Hodge, ma poi si corresse. «È la patria dei Nephilim, il luogo dove possono essere se stessi, dove non c'è bisogno di nascondersi né di fare incantesimi. Il luogo benedetto dall'Angelo. E non puoi dire di aver visto una città finché non hai visto Alicante dalle torri di vetro. È più bella di quanto tu possa immaginare.» C'era un dolore vivo nella sua voce.
Clary pensò all'improvviso al suo sogno. «C'erano mai dei... balli, ad Alicante?»
Hodge sbatté gli occhi come se si fosse appena svegliato da un sogno. «Tutte le settimane. Io non partecipavo mai, ma tua madre sì. E anche Valentine.» Ridacchiò piano. «Io ero più un secchione. Passavo le mie giornate nella biblioteca di Alicante. I libri che vedi qui sono solo una parte dei tesori conservati in quella biblioteca. Speravo che un giorno sarei potuto entrare nella Fratellanza, ma dopo quello che ho fatto naturalmente non mi avrebbero più accettato.»
«Mi dispiace» disse Clary a disagio. Aveva la mente ancora piena del ricordo del suo sogno. C'era una fontana con la statua di una sirena nel posto in cui si ballava? Valentine si vestiva di bianco, in modo che mia madre potesse vedere i marchi sulla sua pelle anche attraverso la camicia?
«Posso tenerla?» chiese indicando la fotografia.
Sul volto di Hodge passò un lampo di esitazione. «Preferirei che non la facessi vedere a Jace» disse. «Ha già abbastanza cose con cui fare i conti, senza che spuntino fuori anche delle foto di suo padre.»
«Certo.» Clary si strinse la foto al petto. «Grazie.»
«Di nulla.» La guardò con aria interrogativa. «Sei venuta in biblioteca per vedere me o per qualche altro motivo?»
«Mi chiedevo se avevi notizie dal Conclave. Sulla Coppa e... su mia mamma.»
«Sì. Questa mattina ho ricevuto una breve risposta da Idris.»
«Hanno mandato qualcuno? Dei Cacciatori?» Clary sentì l'impazienza nella propria voce.
«Sì.»
«E perché non sono qui?» chiese Clary domandandosi perché le risposte di Hodge fossero così asciutte.
«Si teme che l'Istituto sia tenuto d'occhio da Valentine. Quindi, meno si sa e meglio è.» Vide lo sguardo deluso della ragazza e sospirò. «Mi dispiace, ma non posso dirti altro, Clarissa. Temo che il Conclave non si fidi di me. Mi hanno detto pochissimo. Vorrei poterti aiutare.»
Nella tristezza della sua voce c'era qualcosa che rendeva Clary riluttante a cercare di estorcergli altre informazioni. «Una cosa ci sarebbe» gli disse. «Non riesco a dormire. Continuo a pensare troppo. Non c'è un modo...»
«Ah, la mente inquieta,» La sua voce era piena di solidarietà. «Sì, posso darti qualcosa per questo. Aspetta qui.»

La pozione che Hodge le offrì aveva un buon odore di ginepro e foglie fresche. Clary continuò ad aprire l'ampolla e annusarla mentre camminava lungo il corridoio. Purtroppo era ancora aperta quando entrò in camera sua è trovò Jace steso sul letto che guardava il suo album da disegno. Con un urletto di sorpresa Clary lasciò cadere l'ampolla, che rimbalzò sul pavimento versando il proprio contenuto verdino sul parquet.
«Oh, cavoli» disse Jace mettendosi a sedere e abbandonando l'album da disegno. «Spero che non fosse niente di importante.»
«Era una pozione per dormire» spiegò lei arrabbiata sfiorando l'ampolla con la punta di una scarpa da ginnastica. «E adesso è andata.»
«Se solo fosse qui Simon. Probabilmente riuscirebbe a farti addormentare dalla noia.»
Clary non era dell'umore giusto per difendere Simon. Si sedette sul letto e prese l'album. «Di solito non faccio vedere a nessuno le mie cose.»
«Perché no?» Jace aveva un'aria arruffata, come se si fosse appena svegliato. «Non sei niente male come disegnatrice. A tratti sei davvero notevole.»
«Be', perché... è come un diario. Solo che io non penso per parole, penso per immagini, così è tutto fatto di disegni. Comunque è una cosa privata.» Si chiese se sembrasse pazza e sospettò che fosse proprio così.
Jace assunse un'espressione ferita. «Un diario senza neanche un mio ritratto? Dove sono le torride fantasie romantiche? Le immagini da romanzo rosa? I...»
«Ma tutte le ragazze che incontri si innamorano di te?» chiese Clary.
La domanda sembrò sgonfiarlo, come uno spillo con un palloncino. «Non è amore» disse dopo una breve pausa. «O almeno...»
«Potresti provare a non fare sempre il fascinoso» disse Clary. «Sarebbe un bel sollievo per tutti.»
Lui si guardò le mani. Erano già come quelle di Hodge, punteggiate di minuscole cicatrici bianche, anche se la pelle era giovane e priva di rughe.
«Se sei davvero stanca posso metterti a letto io» disse lui con un tono quasi gentile. «Ti racconto la storia della buonanotte.»
Clary lo guardò. «Dici sul serio?»
«Io dico sempre sul serio.»
La ragazza si chiese se la stanchezza non li avesse fatti andare un po' fuori di testa tutti e due. Ma Jace non sembrava stanco. Sembrava triste. Clary appoggiò l'album da disegno sul comodino e si stese, posando la testa di lato sul cuscino. «Va bene.»
«Chiudi gli occhi.»
Lei li chiuse. Vedeva gli spettri della luce della lampada riflessi contro l'interno delle palpebre, come piccole esplosioni di stelle.
«C'era una volta un bambino» cominciò Jace.
Clary lo interruppe subito. «Un bambino Cacciatore?»
«Certo.» Per un istante la sua voce fu colorata da un'ironia nera che svanì subito dopo. «Quando il bambino compì sei anni suo padre gli regalò un falco da addestrare, perché i falchi sono rapaci, uccelli assassini, gli disse suo padre, i Cacciatori del cielo. Al falco quel bambino non piaceva, e al bambino non piaceva il falco. Il suo becco affilato lo rendeva nervoso e i suoi occhi acuti sembravano sempre osservarlo. Quando gli si avvicinava, il falco lo colpiva con il becco o con gli artigli. Per settimane i suoi polsi e le sue mani furono costantemente coperti di sangue. Il bambino non lo sapeva, ma suo padre aveva scelto un falco che aveva vissuto libero per più di un anno ed era quindi quasi impossibile da addomesticare. Ma il bambino ci provò, perché suo padre gli aveva detto di insegnare al falco a obbedire, e lui voleva compiacerlo.
«Stava sempre con il falco, e lo teneva sveglio parlandogli e anche suonandogli della musica, perché gli avevano detto che un uccello stanco era più facile da addomesticare. Imparò tutto sull'equipaggiamento da falconiere: i geti, il cappuccio, i ganci, il guinzaglio che legava il falco al suo polso. Avrebbe dovuto tenere il falco sempre incappucciato, ma decise di non farlo: provò a sedersi dove l'uccello lo poteva vedere mentre gli accarezzava le ali, per fare in modo che si fidasse di lui. Lo nutriva con le proprie mani: all'inizio il falco non mangiava, poi iniziò a mangiare tanto selvaggiamente che il suo becco tagliava la pelle del palmo del bambino. Ma il bambino era felice dei suoi progressi e voleva che l'uccello imparasse a conoscerlo, anche se doveva versare il proprio sangue perché questo succedesse.

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