Capitolo 22 (4^parte)

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Pangborn scrollò le spalle con indifferenza. «Non mi importa nulla di cosa vuole fare con lei» disse. «Era sua moglie. Forse la odia. Un buon movente, no?»
«Non credo» rispose Luke. «Lasciatela andare e noi ce ne andremo con lei. Richiamerò il branco e vi sarò debitore.»
«No!» L'esclamazione rabbiosa di Clary fece spostare gli sguardi di Pangborn e Blackwell su di lei. Entrambi sembravano vagamente increduli, come se la ragazza fosse uno scarafaggio parlante. Clary si voltò verso
Luke: «C'è anche Jace... è qui, da qualche parte...»
Blackwell ridacchiò. «Jace? Mai sentito nessun Jace» disse. «Bene, potrei chiedere a Pangborn di lasciarla andare, ma preferisco di no. Con me Jocelyn ha sempre fatto la bastarda. Pensava di essere migliore di noi, con la sua bellezza e la sua discendenza. Una bastarda con il pedigree, ecco cos'è. Lo ha sposato solo per mettercelo contro e...»
«Ci sei rimasto male perché Valentine non ha sposato te, Blackwell?» fu ciò che rispose Luke, anche se Clary sentì la rabbia gelida nella sua voce.
Blackwell, rosso in viso, fece un passo rabbioso verso il centro della stanza.
E Luke, spostandosi con tanta agilità che Clary quasi non lo vide muoversi, afferrò un bisturi appoggiato sul comodino e lo lanciò. Il bisturi ruotò due volte su se stesso a mezz'aria e affondò nella gola di Blackwell, interrompendo sul nascere la sua ringhiante risposta. Blackwell tossì, gli occhi ribaltati, e cadde in ginocchio portandosi le mani alla gola. Aprì la bocca come per parlare, ma ne uscì solo un sottile rivolo di sangue. Le sue mani scivolarono via dalla gola e lui precipitò a terra come un albero abbattuto. L'impatto fece tremare il pavimento.
«Accidenti» disse Pangborn guardando il corpo caduto del compagno con infastidito disgusto. «Che cosa sgradevole.»
Il sangue che usciva dalla gola di Blackwell si stava allargando sul pavimento in una viscosa pozzanghera rossa. Luke prese Clary per le spalle e le sussurrò qualcosa all'orecchio. Clary non capì nulla, sentì soltanto un ronzio insensato dentro la testa. Era l'ennesima morte a cui assisteva in meno di un'ora. Le venne in mente una poesia che aveva letto durante l'ora di inglese, qualcosa in cui si parlava di come dopo la prima morte che vedi nessun'altra conta più. Il poeta non sapeva di cosa stava parlando.
Luke la lasciò andare. «Le chiavi, Pangborn» disse.
Pangborn diede un colpetto a Blackwell con un piede e poi sollevò lo sguardo. Sembrava infastidito. «Sennò cosa fai? Mi tiri una siringa? C'era solo una lama, su quel tavolino. No» aggiunse, allungando una mano dietro le spalle ed estraendo una lunga spada dall'aria molto pericolosa. «Temo che, se vuoi le chiavi, dovrai venire a prendertele. Non che mi importi qualcosa di Jocelyn Morgenstern, sai, ma il fatto è che sono anni che ho una gran voglia di ucciderti...»
Pronunciò l'ultima parola assaporandola con deliziata esultanza mentre si faceva avanti. La sua lama lampeggiò, un lancia di luce nella semioscurità. Clary vide Luke allungare una mano verso di lei... una mano stranamente lunga che terminava con unghie appuntite simili a piccoli pugnali... e si rese conto di due cose: che Luke stava per trasformarsi, e che quella che le aveva sussurrato all'orecchio era una sola parola.
Corri.
Clary corse. Zigzagò attorno a Pangborn, che la degnò a malapena di un'occhiata, circumnavigò il corpo di Blackwell e fu fuori dalla porta col cuore che martellava prima ancora che la trasformazione di Luke fosse completa. Non si guardò alle spalle, ma sentì un ululato lungo e penetrante, il suono di metallo contro metallo e un rumore di vetri rotti. Forse avevano ribaltato il tavolino, pensò.
Sfrecciò verso la camera delle armi. All'interno afferrò una vecchia ascia con il manico d'acciaio. L'arma rimase attaccata alla parete, per quanto la tirasse. Provò con una spada e poi con una picca e infine con un piccolo pugnale, ma non riuscì a liberare nemmeno quelli. Alla fine, con le unghie rotte e le dita insanguinate per gli sforzi fatti, dovette cedere. In quella stanza era all'opera un incantesimo, e non si trattava di magia runica, ma di qualcosa di selvaggio e bizzarro, qualcosa di nero.
Uscì dalla stanza camminando all'indietro. Su quel piano non c'era nient'altro che potesse aiutarla. E nemmeno al piano di sotto: le porte erano state sprangate. Zoppicò lungo il corridoio - iniziava a sentire il dolore della vera stanchezza nelle gambe e nelle braccia - e si ritrovò sul pianerottolo di una scala. Su o giù? Di sotto, si disse, era tutto senza luce, vuoto. Naturalmente aveva in tasca la stregaluce, ma qualcosa dentro di lei tremava al pensiero di entrare da sola in quegli spazi bui. Al piano di sopra vide il bagliore di altre luci e colse lo sfarfallio di quello che avrebbe potuto essere un movimento.
Andò di sopra. Le gambe le facevano male, e anche i piedi e tutto il resto. Le sue ferite erano state medicate, ma questo non impediva ai tagli di bruciare. Il suo volto era dolorante, dove Hugo le aveva colpito la guancia, e in bocca aveva un sapore metallico e amaro.
Raggiunse l'ultimo pianerottolo. Faceva una curva dolce, come la prua di una nave. Il silenzio era lo stesso che regnava di sotto, e le sue orecchie non coglievano alcun rumore del combattimento che si svolgeva all'esterno. Un altro lungo corridoio si estendeva di fronte a lei, con le stesse porte allineate, ma alcune erano aperte e riversavano altra luce nel corridoio. Clary avanzò: una sorta di istinto la attirava verso l'ultima porta sulla sinistra. Guardò all'interno, con cautela.
All'inizio la stanza le ricordò uno dei diorami storici del Metropolitan Museum of Art. Era come se fosse entrata nel passato: i pannelli di legno sui muri erano lucidissimi, come anche il lunghissimo tavolo da pranzo apparecchiato con delicate stoviglie di porcellana. Elaborati specchi dorati ornavano le pareti, insieme a ritratti a olio dalle cornici massicce. Tutto scintillava alla luce delle torce: i vassoi in tavola, carichi di cibo, i calici a forma di giglio, la tovaglia e i tovaglioli tanto bianchi da accecare. All'estremità opposta della stanza c'erano due grandi finestre drappeggiate di tende di velluto. Jace era in piedi davanti a una delle finestre, tanto immobile che per un istante Clary pensò che fosse una statua, finché non vide la luce che scintillava sui suoi capelli... la mano sinistra di Jace teneva aperta la tenda e nella finestra scura Clary vide i riflessi delle decine di candele che illuminavano la stanza, intrappolati nel vetro come lucciole.
«Jace» disse. Sentì la propria voce come in lontananza e vi percepì lo stupore, la gratitudine, il desiderio, tanto acuto da fare male. Lui si voltò, lasciò andare la tenda e Clary vide lo sguardo interrogativo sul suo volto.
«Jace!» disse lei di nuovo correndo verso di lui. Jace la prese al volo e la abbracciò forte.
«Clary.» La sua voce era quasi irriconoscibile. «Clary, cosa ci fai qui?»
La voce di Clary era attutita dalla maglietta di lui. «Sono venuta a cercarti...»
«Non avresti dovuto...» La sua stretta si allentò all'improvviso e fece un passo indietro, tenendola a distanza. «Mio Dio» disse toccandole il volto. «Sei una pazza! Che cosa sciocca da fare...» La sua voce era arrabbiata, ma il suo sguardo e le sue dita, che le spostarono delicatamente i capelli, erano teneri. Non lo aveva mai visto così: c'era in lui una sorta di fragilità, come se toccandolo si sarebbe potuto rompere. «Ma perché non ti fermi mai a pensare?» sussurrò.
«Ho pensato» disse lei. «Ho pensato a te.»
Jace chiuse gli occhi per un istante. «Se ti fosse successo qualcosa...» Le sue mani percorsero delicatamente il profilo delle braccia di Clary fino ai polsi, come per assicurarsi che fosse davvero lì. «Come hai fatto a trovarmi?»
«Luke» rispose lei con una certa incoerenza. «Sono venuta con Luke.
Per salvarti.»
Jace, senza staccare le mani da lei, spostò lo sguardo da Clary alla finestra, con una piccola smorfia che gli piegava l'angolo della bocca. «Quindi quelli sono... sei venuta con il branco dei lupi?» chiese con uno strano tono di voce.
«È il branco di Luke» rispose lei. «È un licantropo e...»
«Lo so» la interruppe Jace. «Avrei dovuto arrivarci... i ceppi nella sua cantina...» Guardò verso la porta. «Dov'è?»
«Al piano di sotto» disse Clary lentamente. «Ha ucciso Pangborn. Io sono salita a cercarti...»
«Li deve richiamare» disse Jace.
Clary lo guardò senza capire. «Cosa?»
«Luke. Deve richiamare il suo branco C'è stato un malinteso.»
«Cioè? Ti sei rapito da solo?» Avrebbe voluto suonare scherzosa, ma la sua voce era troppo incerta. «Dai, Jace.»
Lo tirò per un polso, ma lui resistette. La stava guardando con un'espressione attenta e Clary notò sbalordita una cosa che prima, in preda all'ondata iniziale di sollievo, non aveva notato.
L'ultima volta che l'aveva visto era stato ferito e picchiato, i suoi abiti erano sporchi di sangue e polvere, i suoi capelli luridi di sangue di demoni e terra. Ora portava una camicia bianca larga e dei pantaloni scuri, i capelli spazzolati gli ricadevano attorno al viso, dorati e leggeri. Jace si spostò qualche ciocca dagli occhi con una mano affusolata e Clary vide che aveva di nuovo al dito il suo grosso anello d'argento.
«Sono tuoi quei vestiti?» chiese un po' confusa. «E poi... sei tutto bendato...» La sua voce si fece più debole. «Sembra che Valentine si sia preso molta cura di te.»
Lui le sorrise con cauto affetto. «Se ti dicessi la verità, diresti che sono pazzo.»
Lei sentì il cuore che le batteva rapidissimo nel petto, come il frullo delle ali di un colibrì. «No, non lo farei.»
«È stato mio padre a darmi questi vestiti» disse lui.
Il frullo divenne un rapido martellare. «Jace» gli disse. «Tuo padre è morto.»
«No.» Il ragazzo scosse il capo. Clary ebbe la sensazione che stesse trattenendo una grande ondata di emozioni: orrore o gioia o entrambe le cose insieme. «Lo credevo, ma non è così. È stato tutto un errore...»
A quel punto Clary ricordò quello che aveva detto Luke sulla capacità di Valentine di raccontare bugie affascinanti e coinvolgenti. «È una cosa che ti ha detto Valentine? Perché lui è un bugiardo, Jace, ricorda quello che ha detto Hodge, e se ti ha detto che tuo padre è vivo, è una bugia per farti fare quello che vuole...»
«Ho visto mio padre» la interruppe Jace. «Gli ho parlato... e lui mi ha dato questa...» Si tirò la camicia nuova e pulita come se fosse una prova schiacciante. «Mio padre non è morto. Valentine non lo ha ucciso. Hodge mi ha mentito. Per tutti questi anni ho creduto che fosse morto, ma non era così.»
Clary si guardò attorno. «Be', se tuo padre è in questo posto, dove si trova? Valentine ha rapito anche lui?»
Gli occhi di Jace scintillavano. Il colletto della sua camicia era aperto e Clary vide le piccole cicatrici sottili che gli coprivano le clavicole, come crepe sulla sua pelle liscia e dorata. «Mio padre...»
La porta, che Clary si era chiusa alle spalle, si aprì con un cigolio e un uomo entrò nella stanza.
Era Valentine. Ora Clary poteva vederlo meglio, senza alcuna parete a dividerli. I suoi corti capelli argentati brillavano come un elmetto d'acciaio cromato e la sua bocca era dura. Portava un lungo fodero alla cintura, dal quale spuntava l'elsa di una spada. «Allora» disse appoggiando una mano sull'elsa mentre parlava. «Hai raccolto le tue cose? I nostri Dimenticati non possono trattenere troppo a lungo i licantropi...»
Vedendo Clary, si interruppe a metà frase. Lui non era il genere di uomo che si facesse cogliere di sorpresa, ma Clary vide un'ombra di stupore nei suoi occhi. «Cosa succede qui?» chiese guardando Jace.
Ma Clary stava già cercando il pugnale infilato nella cintura. Lo afferrò, lo strappò fuori dal fodero e tirò indietro la mano. La rabbia le martellava gli occhi come tamburi di guerra. Avrebbe potuto uccidere quell'uomo. Lo avrebbe ucciso.
Jace le prese il polso. «No.»
Clary non riuscì a trattenere la propria incredulità. «Ma Jace...»
«Clary» disse lui con voce ferma. «Questo è mio padre.»

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