Capitolo 5 (3^parte)

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«Luke!» Clary si accasciò sulla scrivania. «Sono io, Clary.»
«Clary.» La ragazza sentì il sollievo nella sua voce, insieme a qualcos'altro che non riuscì a identificare con precisione. «Stai bene?»
«Sì» disse lei. «Scusa se non ti ho chiamato prima. Luke, mia mamma...»
«Lo so. È stata qui la polizia.»
«Allora non l'hai sentita.» Ogni speranza residua che sua madre fosse scappata e si fosse nascosta da qualche parve svanì all'improvviso. Se fosse andata così avrebbe certamente contattato Luke. «Cosa ha detto la polizia?»
«Solo che è scomparsa.» Clary pensò alla poliziotta con la mano scheletrica ed ebbe un brivido. «Dove sei?»
«In città» rispose Clary. «Non so esattamente dove. Con degli amici. Ho perso il portafogli, però. Se hai dei contanti potrei prendere un taxi e farmi portare da te...»
«No» la interruppe lui.
Il telefono le scivolò tra le mani sudate. Lo riprese al volo. «Cosa?»
«No» ripeté lui. «È troppo pericoloso. Non puoi venire qui.»
«Potremmo chiamare...»
«Ascoltami.» La voce di Luke era dura. «In qualsiasi guaio si sia cacciata tua madre, la cosa non mi riguarda. È meglio che resti dove sei.»
«Ma io non voglio restare qui.» Clary si accorse di avere assunto un tono piagnucoloso, come quello di una bambina. «Non conosco queste persone.
Tu...»
«Io non sono tuo padre, Clary. Te l'ho già detto.»
Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. «Mi dispiace. È solo che...»
«Non chiamarmi più» disse lui. E riappese.

Clary restò immobile a fissare il telefono col segnale di occupato che le ronzava nell'orecchio come una grossa vespa. Compose di nuovo il numero di Luke e attese. Questa volta partì la segreteria telefonica. Clary sbatté il ricevitore al suo posto con le mani che tremavano.
Jace era appoggiato al bracciolo della poltrona di Alec e la osservava. «Mi sembra di capire che non fosse molto contento di sentirti...»
Clary si sentiva come se il cuore le si fosse ridotto alle dimensioni di una noce, una minuscola pietra dura in mezzo al petto. Non piangerò, pensò. Non davanti a queste persone.
«Penso che farò una chiacchierata con Clary» disse Hodge. «Da solo» aggiunse in tono fermo, vedendo l'espressione di Jace.
Alec si alzò in piedi. «Va bene. Pensaci tu.»
«Non è giusto» obiettò Jace. «Sono stato io a trovarla. Sono stato io a salvarle la vita! Tu preferisci che io resti qui, vero?» chiese a Clary.
Clary distolse lo sguardo, sapendo che se avesse aperto la bocca sarebbe scoppiata a piangere. Sentì Alec ridere sommessamente.
«Non tutti ti vogliono sempre attorno, sai, Jace?» disse.
«Non essere ridicolo» gli rispose Jace, ma sembrava deluso. «Va bene.
Noi andiamo in armeria.»
La porta si chiuse dietro di loro con un piccolo scatto. A Clary pungevano gli occhi, come sempre quando cercava di trattenere a lungo le lacrime. Hodge le si parò davanti, una macchia grigia indistinta. «Siediti» le disse.
«Qui, sul divano.»
Lei affondò grata tra i cuscini morbidi. Aveva le guance bagnate. Sollevò una mano per asciugarsi le lacrime. «Di solito non piango molto» si ritrovò a dire. «Non è niente. Adesso mi passa.»
«La maggior parte delle persone non piange quando è sconvolta o quando è spaventata, ma piuttosto quando è frustrata. La tua frustrazione è comprensibile. Hai passato dei momenti decisamente difficili.»
«Difficili?» Clary si asciugò gli occhi nell'orlo della camicia di Isabelle.
«Puoi dirlo forte.»
Hodge tirò fuori la sedia da sotto la scrivania e la portò in un punto adatto per stare di fronte alla ragazza. I suoi occhi, notò solo ora Clary, erano grigi come i suoi capelli e la sua giacca di tweed, ma in loro c'era qualcosa di gentile. «Posso offrirti qualcosa?» chiese. «Qualcosa da bere? Un tè?»
«Non voglio un tè» Clary trattenne a stento la rabbia. «Voglio trovare mia madre. E poi voglio scoprire chi l'ha portata via e voglio ucciderlo.»
«Purtroppo» disse Hodge «al momento abbiamo esaurito la nostra scorta di vendetta-dolce-vendetta, per cui dovrai accontentarti del tè.»
Clary lasciò cadere l'orlo della camicia, che adesso era pieno di macchie umide: «Cosa dovrei fare, allora?»
«Potresti iniziare a raccontarmi quello che è successo» disse Hodge rovistando in tasca. Estrasse un fazzoletto stirato e inamidato, che porse alla ragazza. Clary lo prese con silenzioso stupore. Non aveva mai conosciuto qualcuno che se ne andasse in giro con un fazzoletto di stoffa in tasca. «Quel demone che hai visto nel tuo appartamento... avevi mai visto prima un essere del genere? Avevi idea che esistessero creature come quella?»
Clary scosse il capo, poi fece una pausa. «Ne ho visto un altro, prima, ma non avevo capito cos'era. La prima volta che ho visto Jace...»
«Giusto, ma certo, che sciocco a scordarlo.» Hodge annuì. «Al Pandemonium. Quella è stata la prima volta?»
«Sì.»
«E tua madre non te ne ha mai parlato... non ti ha mai raccontato di un altro mondo che la maggior parte delle persone non possono vedere? Ti sembrava particolarmente interessata ai miti, alle favole, alle leggende fantastiche...»
«No. Odiava tutta quella roba. Non le piacevano neppure i film della Disney. Non le piaceva che leggessi i manga. Diceva che erano infantili.»
Hodge si grattò la testa. I suoi capelli non si mossero. «Decisamente interessante» mormorò.
«Ma figurati» disse Clary. «Mia madre non era interessante. Era la persona più normale del mondo.»
«La gente normale di solito non si ritrova dei demoni che le assediano la casa» osservò Hodge con una certa gentilezza.
«Non può essere stato un errore?»
«Se fosse stato un errore» continuò Hodge «e tu fossi una ragazza qualsiasi, non avresti visto il demone che ti ha attaccato... e se anche lo avessi visto, la tua mente lo avrebbe trasformato in qualcosa di totalmente diverso. Un cane feroce, magari addirittura un altro essere umano. Il fatto che tu l'abbia visto, che ti abbia parlato...»
«Come fai a sapere che mi ha parlato?»
«Jace mi ha riferito che tu hai detto che parlava.»
«Sibilava.» Clary ebbe un brivido a quel ricordo. «E diceva che mi voleva mangiare, ma non penso che volesse farlo davvero.»
«I Divoratori di solito sono sotto il controllo di un demone più forte» spiegò Hodge. «Non sono molto intelligenti e da soli non sanno combinare granché.» Inclinò la testa da un lato. «Ha detto cosa stava cercando il suo padrone?»
Clary ci pensò sopra un po'. «Ha detto qualcosa su un certo Valentine, ma...»
Hodge scattò in piedi così all'improvviso che Hugo, fino a quel momento comodamente appollaiato sulla sua spalla, si lanciò in aria con un verso irritato. «Valentine?»
«Sì» disse Clary sbalordita. «Ho pensato di avere sentito male. Valentine non sembra proprio un nome da demone...»
«Valentine non è un demone.» La voce di Hodge era ferma, ma Clary notò un leggero tremito nelle sue mani. Hugo, che era tornato a posarsi sulla sua spalla, arruffò le penne inquieto.
«Lo conosci?»
«Sì. Valentine è... era... un Cacciatore.»
«Un Cacciatore? Perché dici era?»
«Perché è morto» disse Hodge in tono neutro. «È morto da quindici anni.»

Clary sprofondò di nuovo tra i cuscini del divano. Le pulsava la testa. Forse avrebbe dovuto accettarlo, quel tè. «Non potrebbe essere qualcun altro? Qualcuno con lo stesso nome?»
La risata di Hodge fu un latrato privo di allegria. «No. Ma potrebbe essere qualcuno che usa il suo nome per mandare un messaggio.» Si alzò e si avvicinò alla scrivania, le mani unite dietro la schiena. «E questo sarebbe il momento giusto per farlo.»
«Perché?»
«A causa degli Accordi.»
«I negoziati di pace? Jace mi ha detto qualcosa in proposito. Pace con chi?»
«I Nascosti» mormorò Hodge. Sollevò lo sguardo su Clary. La sua bocca era una linea sottile. «Scusami» aggiunse poi. «Per te deve essere tutto piuttosto sconcertante.»
Clary annuì. «Direi proprio di sì.»
Hodge si appoggiò alla scrivania e iniziò ad accarezzare distrattamente le penne di Hugo. «I Nascosti sono coloro che abitano insieme a noi nel Mondo Invisibile. La pace tra di noi è sempre stata estremamente instabile.»
«Sono tipo i vampiri, i lupi mannari e...»
«Il Popolo Fatato» disse Hodge. «Le fate. E i figli di Lilith, essendo mezzi demoni, sono stregoni.»
«E voi Cacciatori cosa siete?»
«A volte ci chiamano Nephilim» disse Hodge. «Nella Bibbia erano il frutto dell'unione di angeli ed esseri umani. Secondo la leggenda, gli Shadowhunters furono creati più di mille anni fa, quando gli umani stavano per essere distrutti dalle invasioni di demoni provenienti da altri mondi. Uno stregone evocò l'angelo Raziel, che mescolò in una ciotola un po' del proprio sangue con del sangue umano e lo diede da bere agli uomini. Coloro che bevvero il sangue dell'Angelo divennero Cacciatori, e così i loro figli e i figli dei loro figli. La ciotola da allora fu conosciuta come la Coppa Mortale. Anche se forse la leggenda non è del tutto vera, ciò che è vero è che nel corso degli anni, quando le fila dei Cacciatori si assottigliavano, era possibile crearne di nuovi usando la Coppa.»
«Era possibile?»
«La Coppa è andata perduta» disse Hodge. «È stata distrutta da Valentine, poco prima che morisse. Ha appiccato un grande incendio ed è bruciato coi suoi genitori, sua moglie e suo figlio. La terra lì è diventata nera. Nessuno costruirà più nulla, in quel punto. Dicono che sia un posto maledetto.»
«È così?»
«Può essere. Il Conclave ogni tanto pronuncia delle maledizioni come punizione per chi ha infranto la Legge. Valentine ha infranto la Legge più importante di tutte: ha preso le armi contro altri Shadowhunters e li ha massacrati. Lui e il suo gruppo, il Cerchio, uccisero decine di loro simili, oltre a centinaia di Nascosti, durante gli ultimi Accordi. Li sorpresero con la guardia abbassata.»
«Perché si era messo contro gli altri Cacciatori?»
«Non approvava gli Accordi. Odiava i Nascosti e riteneva che andassero uccisi in massa per mantenere questo mondo puro per gli esseri umani. Sebbene non siano demoni né invasori, lui riteneva che avessero una natura demoniaca, e per lui era sufficiente. Il Conclave non era d'accordo, i suoi membri pensavano che l'aiuto dei Nascosti fosse necessario se volevamo cacciare via i demoni una volta per tutte. E, in effetti, come si fa a dire che il Popolo Fatato non appartiene a questo mondo dal momento che si trova qui da prima di noi?»
«Gli Accordi furono firmati?»
«Sì, furono firmati. Quando i Nascosti videro che il Conclave si opponeva a Valentine e al suo Cerchio per difenderli, si resero conto che i Cacciatori non erano loro nemici. Paradossalmente, fu proprio Valentine che, con la sua insurrezione, rese possibili gli Accordi.» Si risedette. «Mi scuso per la lezione di storia non richiesta. Valentine era questo: un agitatore, un visionario, un uomo di grande fascino e carisma personale. E un assassino.
E ora qualcuno sta evocando il suo nome...»
«Ma chi?» chiese Clary. «E cosa c'entra mia madre con questa storia?»
Hodge si alzò di nuovo. «Non lo so. Ma farò quello che posso per scoprirlo. Manderò dei messaggi al Conclave e anche ai Fratelli Silenti. Potrebbero voler parlare con te.»
Clary non chiese chi fossero i Fratelli Silenti. Era stanca di fare domande le cui risposte la confondevano ancora di più. Si alzò in piedi. «C'è una qualche possibilità che io possa tornarmene a casa?»
Hodge parve preoccupato. «No, io... direi che non sarebbe prudente.»
«Ci sono delle cose che mi servono, a casa. Anche se resto qui. Vestiti...»
«Ti possiamo dare dei soldi per comprare vestiti nuovi.»
«Ti prego» disse Clary. «Devo vedere se... devo vedere cosa è rimasto.»
Hodge esitò, poi le rivolse un breve cenno del capo. «Se Jace è d'accordo, potete andare insieme.» Si voltò verso la scrivania e si mise a rovistare tra le carte. Dopo un po' guardò da sopra la spalla come se si fosse reso conto solo allora che Clary era ancora lì. «Ti aspetta in armeria.»
«Non so dov'è.»
Hodge fece un sorriso scaltro. «Ti ci porterà Church.»
Clary guardò in direzione della porta, dove il gattone persiano se ne stava quietamente acciambellato. Quando lei gli giunse vicino, il felino si alzò, la pelliccia che fremeva come la superficie di uno stagno. Con un miagolio imperioso la condusse lungo il corridoio. Quando si voltò, Clary vide Hodge intento a scribacchiare su un foglio. Probabilmente stava preparando il messaggio per il misterioso Conclave. Non sembravano persone troppo simpatiche, i membri del Conclave, pensò Clary. E si chiese cosa avrebbero risposto.

L'inchiostro rosso sembrava sangue sulla carta bianca. Hodge Starkweather corrugò la fronte mentre arrotolava la lettera in modo attento e meticoloso fino a ottenere una specie di tubetto, dopodiché chiamò Hugo con un fischio. L'uccello gracchiò un poco e gli si posò sul polso. Hodge ebbe un sussulto. Anni prima, durante la Rivolta, era stato ferito alla spalla, e anche un peso lieve come quello di Hugo - o un cambio di stagione, una variazione dell'umidità, un movimento brusco del braccio - risvegliavano vecchie fitte e ricordi di sofferenze che avrebbe preferito dimenticare.
Vi erano però alcuni ricordi che non scolorivano mai. Quando chiudeva gli occhi, dietro le sue palpebre esplodevano e si dissolvevano delle immagini: sangue e cadaveri, terra smossa, un podio bianco macchiato di rosso. Le urla dei morenti. I prati verdi e dolci di Idris e il suo infinito cielo blu trafitto dalle torri della Città di Vetro. Il dolore della perdita gli crebbe dentro come una marea; Hodge strinse il pugno e Hugo sbatté le ali e gli beccò rabbiosamente le dita. Hodge aprì la mano insanguinata e liberò l'uccello, che gli girò in cerchiò sopra la testa, uscì dal lucernario e scomparve.
Hodge si scrollò di dosso i brutti presentimenti e prese un altro foglio senza notare le gocce rosse che macchiavano la carta mentre scriveva.

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