Capitolo 20 (1^parte)

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capitolo 20
NEL VICOLO DEI TOPI

Hodge restò a guardarlo ansimando, i pugni che si aprivano e si chiudevano lungo i fianchi. La sua mano sinistra era ricoperta dal fluido scuro che gli era uscito dal petto. L'espressione sul volto di Hodge era un misto di esultanza e disprezzo per se stesso.
«Hodge!» Clary picchiò la mano sul muro invisibile che li separava. Il dolore le attraversò tutto il braccio, ma non era nulla in confronto a quello che provava nel petto. A Clary sembrava che il suo cuore stesse per aprirle in due il torace. Jace, Jace, Jace... quella parola le echeggiava nella mente e avrebbe voluto urlarla con tutto il fiato che aveva in gola, ma si trattenne. «Hodge, fammi uscire!»
Hodge si voltò e scosse il capo. «Non posso» disse usando il fazzoletto perfettamente piegato per strofinarsi la mano sporca. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Cercheresti soltanto di uccidermi.»
«Non lo farò» disse lei. «Lo prometto.»
«Ma tu non sei stata cresciuta come una Cacciatrice» disse Hodge «e le tue promesse non significano nulla.» L'orlo del suo fazzoletto stava fumando, come se lo avesse intinto nell'acido, e la sua mano non era meno nera di prima. Hodge fece una smorfia e abbandonò il progetto.
«Ma non l'hai sentito?» disse lei disperata. «Ucciderà Jace.»
«Non ha detto questo.» Hodge era tornato alla scrivania e stava aprendo un cassetto e prendendo un foglio di carta. Tirò fuori una penna dal taschino e la picchiettò contro il bordo della scrivania per far scorrere l'inchiostro. Clary lo guardò sbalordita. Si stava mettendo a scrivere una lettera?
«Hodge» disse cercando di non perdere il controllo. «Valentine ha detto che Jace sarebbe stato presto insieme a suo padre. Il padre di Jace è morto.
Cos'altro poteva voler dire, secondo te?»
Hodge non sollevò lo sguardo dal foglio di carta su cui stava scrivendo.
«È complicato. Non capiresti.»
«Ho capito abbastanza.» Le sembrava che l'amarezza che provava avrebbe potuto bruciarle la lingua. «Ho capito che Jace si fidava di te e tu lo hai consegnato a un uomo che odiava suo padre e probabilmente odia anche lui, solo perché sei troppo vigliacco per convivere con una maledizione che ti sei meritato.»
Lo sguardo di Hodge scattò su di lei. «È questo che pensi?»
«È quello che so.»
L'uomo mise giù la penna e scosse il capo. Sembrava stanco e vecchissimo, molto più vecchio di Valentine, anche se avevano la stessa età. «Tu conosci solo dei pezzi di questa storia, Clary. Ed è molto meglio così.» Ripiegò il foglio in un quadrato e lo gettò nel fuoco, che mandò una fiammata di un vivace verde acido.
«Cosa stai facendo?» chiese Clary.
«Mando un messaggio.» Hodge voltò le spalle al fuoco. Era vicino a lei, li separava solo il muro invisibile. Clary premette le dita contro di esso e desiderò poterle piantare negli occhi di Hodge, anche se erano così tristi, tristi quanto quelli di Valentine erano rabbiosi. «Tu possiedi» disse lui «l'assolutismo morale dei giovani, che non ammette eccezioni. Non capisci, Clary, che a modo mio sto cercando di essere una brava persona?»
Clary scosse il capo. «Non è così che funziona. Le buone azioni non cancellano quelle pessime. Ma...» si morse un labbro «... se mi dicessi dov'è Valentine...»
«No» sussurrò Hodge. «Si dice che i Nephilim siano i figli degli uomini e degli angeli. Tutto ciò che ci ha lasciato questa discendenza dagli angeli è una maggiore altezza da cui precipitare quando cadiamo.» Toccò con la punta delle dita la superficie invisibile della parete. «Tu non sei stata cresciuta come una di noi. Non fai parte di questa vita di cicatrici e morte. Puoi ancora andartene. Lascia l'Istituto, Clary. Vattene il prima possibile e non tornare più indietro.»
Le scosse il capo. «Non posso» disse. «Non posso farlo.»
«E allora ti faccio le mie condoglianze» disse Hodge mentre usciva dalla stanza.

La porta si chiuse alle sue spalle lasciando Clary nel silenzio. C'erano solo il suo respiro affannoso, il ticchettio della pioggia e il rumore delle sue dita contro la barriera trasparente e impenetrabile che la separava dalla porta. Fece esattamente ciò che si era detta che non avrebbe fatto: si lanciò più e più volte contro la barriera, finché non fu esausta e dolorante. Poi si lasciò cadere a terra e cercò di non piangere.
Da qualche parte, dall'altro lato della barriera, Alec stava morendo, mentre Isabelle aspettava che Hodge lo salvasse. Da qualche parte, al di là di quella stanza, Jace veniva risvegliato bruscamente da Valentine. Da qualche parte, le possibilità di sopravvivenza di sua madre stavano svanendo un momento dopo l'altro, un secondo dopo l'altro. E lei era intrappolata lì, inutile e indifesa come la ragazzina che era.
Ma poi si mise a sedere di scatto quando ricordò all'improvviso il momento a casa di Madame Dorothea in cui Jace le aveva messo in mano lo stilo. Glielo aveva ridato? Trattenendo il fiato tastò la tasca sinistra della giacca: era vuota. La sua mano si spostò lentamente nella tasca destra, dove le sue dita sudaticce raccolsero qualche cartaccia per poi trovare qualcosa di duro, liscio e stondato: lo stilo.
Balzò in piedi con il cuore che batteva a mille e cercò con la mano sinistra il muro invisibile. Quando lo trovò si fece coraggio e avvicinò la punta dello stilo con l'altra mano finché non toccò quell'aria solida e liscia. Le si stava già formando un'immagine nella mente, come un pesce che viene a galla nell'acqua torbida, il disegno delle sue squame sempre più chiaro mano a mano che si avvicina alla superficie. Iniziò - prima lentamente, poi con più decisione - a muovere lo stilo sulla parete, lasciando delle linee bianco cenere a fluttuare nell'aria davanti a lei.
Dopo un po' sentì di avere finito di tracciare le rune e abbassò la mano, col fiato corto. Per un istante tutto restò immobile e silenzioso, e le parole restarono a mezz'aria come luci al neon, bruciandole gli occhi. Poi si sentì un suono fortissimo, come di una grande vetrata che andava in pezzi, come se si trovasse sotto una cascata di vetri e ascoltasse le schegge rompersi tutt'attorno a lei. La runa che aveva disegnato divenne nera e si disperse come polvere: il pavimento tremò sotto i suoi piedi e poi fu tutto finito, e lei seppe, senza alcun dubbio, di essere libera.

Con ancora lo stilo in mano corse alla finestra e aprì le tende. Si stava avvicinando il crepuscolo e le strade erano inondate di un bagliore rossoviolaceo. Per fortuna erano anche quasi deserte, e Clary vide perfettamente Hodge che attraversava la strada. Sembrava uno spaventapasseri con il suo soprabito nero e il suo cappello malandato.
Schizzò fuori dalla biblioteca e giù per le scale, fermandosi solo per rimettere lo stilo nella tasca della giacca. Infilò di corsa le scale e, quando raggiunse la strada, aveva già iniziato a farle male la milza. La gente che portava a spasso i cani nell'umidità della sera si scostava bruscamente quando lei passava loro accanto a tutta velocità, lungo la passeggiata che costeggiava l'East River. Mentre svoltava l'angolo, Clary si intravide nella vetrata oscurata di un palazzo. Aveva i capelli sudati e incollati alla fronte e il volto incrostato di sangue secco.
Raggiunse l'incrocio che aveva visto Hodge attraversare dalla finestra. Per un momento pensò di averlo perso. Sfrecciò attraverso la folla, vicino all'entrata della metropolitana, spostando la gente a spallate e usando i ginocchi e i gomiti come armi improprie. Sudata e ammaccata, si liberò dalla folla appena in tempo per intravedere un abito di tweed che scompariva dietro l'angolo di un vicoletto di servizio tra due edifici. Clary si diede un'occhiata: la sua maglietta, che era stata rosa, era inzuppata di sudore e macchiata di sangue. Rivoli di sudore le correvano lungo la nuca. Avrebbe voluto togliersi la giacca, ma non avrebbe più avuto un posto in cui tenere lo stilo.
Girò attorno a un cassonetto e raggiunse l'angusta entrata del vicolo. Ogni volta che respirava le bruciava il fondo della gola. Anche se per le strade era il tramonto, in quel vicolo era buio come fosse già notte. Vide a malapena Hodge all'estremità opposta che terminava sul retro di un fast food pieno di immondizie: sacchi di cibo, vassoi di carta sporchi e posate di plastica che scricchiolarono sgradevolmente sotto le scarpe di Hodge quando si voltò a guardarla. A Clary venne in mente una poesia che avevano letto a lezione di inglese: Eccoci nel vicolo dei topi dove i morti hanno lasciato le loro ossa.
«Mi hai seguito» disse lui. «Non avresti dovuto farlo.»
«Se vuoi che ti lasci stare, basta che mi dica dove si trova Valentine.»
«Non posso farlo. Saprebbe che te l'ho detto io e la mia libertà sarebbe breve come la mia vita.»
«Lo sarà comunque quando il Conclave scoprirà che hai dato la Coppa Mortale a Valentine» gli fece notare Clary. «Dopo averci convinti con l'inganno a trovarla. E dopo quello che hai fatto a Jace...»
Lui la interruppe con una breve risata. «Ho più paura di Valentine che del Conclave, e tu faresti lo stesso, se fossi saggia» disse. «Alla fine avrebbe trovato comunque la Coppa, con o senza il mio aiuto.»
«E non ti interessa il fatto che la userà per uccidere dei bambini?»
Uno spasmo attraversò il volto di Hodge mentre faceva un passo avanti, e Clary vide qualcosa che gli luccicava in mano. «Tutto questo ha davvero tanta importanza, per te?»
«Te l'ho già detto» rispose lei. «Non posso semplicemente andarmene via.»
«È un peccato» disse Hodge, e lei lo vide sollevare un braccio, e ricordò all'improvviso quando Jace aveva detto che l'arma preferita di Hodge era il chakram, la lama rotante. Si chinò ancora prima di vedere il cerchio luccicante di metallo volare ruotando verso la sua testa: la superò con un ronzio, passando a pochi centimetri dal suo volto, e si conficcò nella scala antincendio di metallo alla sua sinistra.
Clary si rimise in piedi. Hodge la stava guardando e intanto teneva in mano un secondo dischetto di metallo. «Puoi ancora scappare» disse.
Lei alzò istintivamente le mani, anche se la logica le diceva che il chakram gliele avrebbe semplicemente fatte a fette. «Hodge...»
Qualcosa le sfrecciò davanti, qualcosa di grosso, grigio-nero e vivo. Sentì Hodge urlare in preda all'orrore. Arretrando gattoni, Clary vide la cosa più chiaramente mentre si piazzava tra lei e Hodge. Era un lupo lungo quasi due metri, con una pelliccia corvina attraversata da un'unica striscia grigia.
Hodge, il disco di metallo stretto in mano, era bianco come uno straccio. «Tu!» sussurrò, e Clary si rese conto con una sorta di distaccato stupore che stava parlando con il lupo. «Valentine mi aveva detto che eri scappato...»
Le labbra del lupo si ritrassero dai denti, e Clary vide la lingua rossa dell'animale. Nei suoi occhi c'era odio, mentre guardava Hodge, un odio puro e del tutto umano.
«Sei venuto per me o per la ragazza?» chiese Hodge. Il sudore gli scendeva lungo le tempie, ma la sua mano era ferma.
Il lupo gli si avvicinò emettendo un basso ringhio di gola.
«Sei ancora in tempo» disse Hodge. «Valentine ti riprenderebbe...»
Il lupo ululò e spiccò il salto. Hodge urlò ancora. Vi fu un lampo d'argento e si udì un rumore rivoltante quando il chakram si piantò nel fianco del lupo. L'animale arretrò sulle zampe posteriori, e mentre balzava addosso a Hodge. Clary vide il bordo del disco che spuntava in mezzo alla sua pelliccia insieme a un fiotto di sangue.
Hodge lanciò un altro urlo mentre cadeva a terra e le zanne del lupo si chiudevano sulla sua spalla. Una sventagliata di sangue sporcò il muro di cemento dietro di lui. Il lupo sollevò la testa dal corpo esanime dell'uomo e rivolse il suo sguardo grigio e ferino verso Clary, coi denti che sgocciolavano sangue.
Clary non urlò. Non aveva abbastanza aria nei polmoni per emettere un qualsiasi suono. Si rimise goffamente in piedi e corse, corse verso l'imboccatura del vicolo e le familiari luci al neon della strada, corse verso la sicurezza del mondo reale. Sentì il lupo che ringhiava dietro di lei, sentì il suo fiato caldo sulle gambe nude. Fece un ultimo sforzo e si lanciò verso la strada...

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