Capitolo 16 (2^parte)

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Clary gli sfiorò la spalla. «Hodge ti ha rimesso a posto?»
Simon annuì. «Sì, mi sento ancora come se mi avesse tirato sotto un treno, ma non ho niente di rotto... non più, almeno.» Si voltò a guardarla. I suoi occhi dietro le lenti erano gli stessi che lei ricordava: scuri e seri, incorniciati dal genere di ciglia delle quali a un ragazzo non importava nulla ma per le quali una ragazza avrebbe ucciso. «Clary... il fatto che tu sia venuta lì per me... che abbia rischiato tutto...»
«Lascia stare.» Clary alzò una mano imbarazzata. «Tu avresti fatto lo stesso per me.»
«Certo» disse lui senza arroganza né pretenziosità «ma ho sempre pensato che le cose non stessero così, tra noi... sai...»
Clary si voltò per rivolgergli uno sguardo perplesso. «In che senso?»
«Voglio dire» disse Simon, come se fosse sorpreso di dover spiegare qualcosa che gli pareva ovvio «che sono stato sempre io quello che aveva bisogno di te, e non il contrario.»
«Questo non è per niente vero.» Clary era sbalordita.
«E invece sì» disse Simon con la stessa calma snervante. «Tu non mi hai mai dato l'impressione di avere davvero bisogno di qualcuno, Clary. Sei sempre stata così... trattenuta. Tutto ciò che ti serviva erano le tue matite e i tuoi mondi immaginari. Mi è capitato un sacco di volte di ripetere le cose sei o sette volte, prima che tu rispondessi... eri sempre così distante... E poi ti voltavi verso di me e mi facevi uno dei tuoi sorrisi buffi, e io capivo che ti eri completamente dimenticata di me... Ma questa cosa non mi ha mai fatto arrabbiare. Metà della tua attenzione è meglio di tutta quella di chiunque altro.»
Clary provò a prendergli la mano, ma gli raggiunse il polso. Sentiva le pulsazioni sotto la sua pelle. «Io ho amato solo tre persone in vita mia» gli disse. «Mia mamma, Luke e te. E ho perso tutti, a parte te. Non pensare nemmeno di non essere importante per me... non pensarci nemmeno.»
«Mia mamma dice che bastano tre persone su cui fare affidamento per sentirsi realizzati» disse Simon. Il suo tono era leggero, ma a metà della parola "realizzati" gli si incrinò la voce. «Dice che tu sei sufficientemente realizzata.»
Clary gli rivolse un sorriso furbo. «Tua mamma ha altre perle di saggezza in serbo su di me?»
«Sì.» Simon rispose al suo sorriso con uno altrettanto ironico. «Ma non ho alcuna intenzione di rivelartele.»
«Non è giusto!»
«Chi ha mai detto che il mondo è giusto?»

Alla fine si sdraiarono a letto come facevano quando erano bambini, spalla a spalla, le gambe di Clary sopra quelle di Simon. La punta delle sue dita arrivava appena sotto il ginocchio di lui. Stesi sulla schiena, parlarono fissando il soffitto, un'abitudine che era rimasta loro da quando il soffitto della stanza di Clary era coperto di stelle fosforescenti adesive. Se Jace profumava di sapone e limone, Simon puzzava come uno che si era rotolato nel parcheggio di un supermercato, ma a Clary non dava fastidio.
«La cosa strana» disse Simon avvolgendosi attorno a un dito una ciocca dei capelli di Clary «è che stavo scherzando con Isabelle sui vampiri subito prima che succedesse. Cercavo di farla ridere un po', no? "Cosa usate per far sclerare i vampiri ebrei? Stelle di David d'argento? Fegato tritato? Assegni da diciotto dollari?"» Clary scoppiò a ridere.
Simon parve gratificato. «Isabelle non ha riso.»
Clary pensò a una serie di cose che avrebbe voluto dire, ma non le disse. «Non sono sicura che questo sia il genere di umorismo che fa per Isabelle.»
Simon le lanciò un'occhiata di traverso. «Va a letto con Jace?»
Il gridolino di sorpresa di Clary si trasformò in un colpo di tosse, dopodiché lanciò un'occhiataccia all'amico. «Ma no! Sono praticamente parenti.
Non lo farebbero mai.» Fece una pausa. «O almeno credo.»
Simon scrollò le spalle. «Non che me ne freghi qualcosa» disse deciso. «Certo, come no.»
«Neanche un po'!» Si voltò di lato. «Sai, all'inizio pensavo che Isabelle fosse... non so... fantastica. Eccitante. Diversa. Poi alla festa ho capito che in realtà era pazza.»
Clary lo guardò con gli occhi socchiusi. «È stata lei a dirti di bere quel cocktail blu?»
Lui scosse il capo. «Quella è stata un'idea mia. Ti ho visto mentre ti allontanavi insieme a Jace e Alec e... non lo so... avevi un aspetto così diverso dal solito. Sembravi proprio un'altra. Non ho potuto fare a meno di pensare che fossi già cambiata e che io sarei rimasto fuori dal tuo nuovo mondo. Volevo fare qualcosa per entrare almeno un po' a farne parte. Così, quando si è avvicinato quel piccoletto verde con il vassoio dei cocktail...»
Clary sbuffò. «Sei un idiota.»
«Non ho mai sostenuto il contrario.»
«Scusa. È stato orribile?»
«Essere un topo? No. All'inizio ero disorientato. All'improvviso arrivavo alle caviglie di tutti quanti. Ho pensato di avere bevuto una pozione rimpicciolente, ma non riuscivo a capire come mai avessi tutta quella voglia di masticare le carte delle cicche.»
Clary ridacchiò. «No... volevo dire... all'albergo dei vampiri... è stato orribile?»
Qualcosa tremolò negli occhi di Simon, che distolse subito lo sguardo. «No. A dire la verità non è che ricordi un granché, tra la festa e l'atterraggio nel parcheggio.»
«Probabilmente è meglio così.»
Simon fece per dire qualcosa, ma fu bloccato da uno sbadiglio. La luce nella stanza era svanita lentamente. Districandosi da Simon e dalle lenzuola, Clary si alzò e aprì le tende della finestra. All'esterno la città era immersa nel bagliore rossastro del tramonto. Il tetto argentato del Chrysler Building, a cinquanta isolati di distanza, brillava come un attizzatoio lasciato troppo a lungo sul fuoco. «Il sole sta tramontando. Forse dovremmo cercare qualcosa da mangiare.»
Non vi fu alcuna risposta. Clary si voltò e vide che Simon si era addormentato, le mani intrecciate sotto la testa, le gambe spalancate. La ragazza sospirò, si avvicinò al letto, gli tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino. Non si contavano le volte che Simon si era addormentato con addosso gli occhiali ed era stato svegliato dal rumore delle lenti che si rompevano.
E adesso dove vado a dormire? Non che le creasse problemi dividere il letto con Simon, ma non le aveva lasciato molto spazio. Prese in considerazione la possibilità di spostarlo un po', ma aveva un'aria così serafica. E poi lei non aveva sonno. Stava per prendere l'album da disegno sotto il cuscino, quando qualcuno bussò alla porta.
Attraversò la stanza a piedi nudi e girò la maniglia cercando di non fare rumore. Era Jace. Ripulito, in jeans e maglietta grigia, i capelli lavati a formare un'aureola umida e dorata. I lividi sul volto stavano già passando dal viola al grigio chiaro. Aveva le mani dietro la schiena.
«Dormivi?» chiese. Non c'era nemmeno un'ombra di scuse nella sua voce, solo curiosità.
«No.» Clary uscì in corridoio chiudendosi la porta alle spalle. «Perché lo pensavi?»
Lui diede un'occhiata al pigiama azzurrino di lei. «Per nessun motivo in particolare.»
«Ho passato quasi tutta la giornata a letto» disse Clary, il che era tecnicamente vero. Vedendolo, il suo livello di agitazione era schizzato in su almeno del mille per cento, ma non trovò alcun motivo per comunicarglielo. «E tu? Non sei esausto?»
Jace scosse il capo. «I cacciatori di demoni sono come il servizio postale, non dormono mai. "Né neve né pioggia né caldo né tenebre possono fermare questi..."»
«Saresti in guai grossi, se le tenebre potessero fermarti» fece notare lei.
Jace sogghignò. A differenza dei suoi capelli, i suoi denti non erano perfetti. Un incisivo superiore era leggermente sbeccato, e la cosa gli dava un'aria ancora più carina.
Clary si strinse le braccia al petto. In corridoio faceva freddo e sentì la pelle d'oca che le si stava formando sulle braccia. «Cosa ci fai qui?»
«Qui nel senso di "in camera tua" o qui nel senso della grande domanda spirituale riguardo a qual è il nostro scopo in questo mondo? Se mi stai chiedendo se è tutto una grande casualità cosmica o se la vita ha un senso morale superiore, be', sono secoli che l'uomo cerca di dare una risposta a questa domanda. Voglio dire, il mero riduzionismo ontologico è chiaramente un'argomentazione fallace, ma...»
«Io torno a letto.» Clary fece per girare la maniglia.
Jace si infilò agilmente tra lei e la porta. «Sono qui» disse «perché Hodge mi ha detto che era il tuo compleanno.»
Clary sospirò esasperata. «Non fino a domani.»
«Non c'è motivo per non iniziare a festeggiare subito.»
Lei lo guardò. «Stai evitando Alec e Isabelle.»
Jace annuì. «Vogliono tutt'e due decidere cosa devo e non devo fare.» «Per lo stesso motivo?»
«Non saprei.» Guardò su e giù per il corridoio. «E anche Hodge. Tutti vogliono parlarmi. A parte te. Scommetto che tu non vuoi parlare con me.»
«No» disse Clary. «Voglio mangiare. Sto morendo di fame.»
Jace fece uscire una mano da dietro la schiena. Stava tenendo un sacchetto di carte un po' stropicciato. «Ho soffiato un po' di cibo dalla cucina mentre Isabelle non guardava.»
Clary sorrise. «Un picnic? È un po' tardi per Central Park, non ti pare? È pieno di...»
Jace mosse una mano. «Fate. Lo so.»
«Stavo per dire "rapinatori"» disse Clary. «Anche se non invidio un rapinatore che dovesse decidere di prendersela con te.»
«Questo è un atteggiamento saggio per il quale non posso che lodarti» si pavoneggiò Jace. «Ma non stavo pensando a Central Park. Cosa ne diresti della serra?»
«Adesso? Di sera? Non è... buio?»
Jace sorrise come se avesse un segreto. «Vieni. Ti faccio vedere.»

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