Capitolo 6 (2^parte)

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Ma non c'era alcun segno di distruzione. Immersa nella luce gradevole del pomeriggio, l'arenaria della casa sembrava brillare. Le api ronzavano pigre attorno alle piante di rose, sotto le finestre di Madame Dorothea.
«Sembra tutto identico a prima» disse Clary.
«All'esterno.» Jace infilò una mano nella tasca dei jeans e tirò fuori uno di quegli aggeggi di metallo e plastica che lei aveva scambiato per un cellulare.
«Cos'è quel coso?»
«È un sensore. Rileva le frequenze, come una radio, solo che queste sono frequenze demoniache.»
«Onde corte infernali?»
«Una cosa del genere.» Jace sollevò il sensore di fronte a sé, mentre si avvicinavano alla casa. Sulle scale emise un lieve ticchettio, che smise subito. Jace corrugò la fronte. «Sta rivelando tracce di attività, ma potrebbe essere una scia delle presenze dell'altra notte. Sono troppo deboli perché ci siano qui dei demoni, in questo momento.»
Clary sospirò e si accorse solo allora di avere trattenuto il fiato. «Bene» si chinò per recuperare le chiavi. Quando si rialzò, vide i graffi sulla porta d'ingresso. L'ultima volta probabilmente non li aveva visti perché era troppo buio. Sembravano segni di artigli, lunghi e paralleli, incisi in profondità nel legno. Sentì il sangue defluirle dal volto.
Jace le toccò un braccio. «Entro prima io» disse. Clary avrebbe voluto dirgli che non aveva bisogno di nascondersi dietro di lui, ma le parole non le uscirono. Sentiva ancora il sapore del terrore che aveva provato quando aveva visto il Divoratore, aspro e ferroso come quello di una vecchia moneta.
Jace spinse la porta e invitò Clary a seguirla, facendole un cenno con la mano che stringeva il sensore. Una volta giunti nell'ingresso, Clary strizzò gli occhi per abituarsi alla semioscurità. La lampadina del soffitto era bruciata, il lucernario era chiuso e le ombre si allargavano pesanti sul pavimento sbeccato. La porta di Madame Dorothea era chiusa. Sotto di essa non si intravedeva alcuna luce. Clary si chiese preoccupata cosa fosse successo.
Jace sollevò una mano e la fece scorrere lungo la ringhiera della scala.
Quando la ritrasse era bagnata di qualcosa di rosso scuro. «Sangue.»
«Magari è mio.» La voce di Clary suonava metallica. «Dell'altra sera.»
«A quest'ora sarebbe secco» disse Jace. «Vieni.»
Iniziò a risalire le scale con Clary alle calcagna. Il pianerottolo era buio e la ragazza dovette trafficare parecchio con le chiavi prima di riuscire a infilare quella giusta nella serratura. Jace era chino su di lei e la osservava impaziente. «Non fiatarmi sul collo» sibilò lei con le mani che tremavano.
E finalmente riuscì a far girare la chiave nella toppa.
Jace la tirò indietro. «Vado prima io.»
Clary esitò, poi si fece da parte e lo lasciò passare. Aveva le mani appiccicose, e non era per il caldo. In effetti l'appartamento era fresco, quasi freddo: dalla porta d'ingresso uscì una folata d'aria gelida che le punse la pelle. Sentì che le venivano i brividi mentre seguiva Jace lungo il breve corridoio che portava in salotto.
Era vuoto. Totalmente, spaventosamente vuoto, come la prima volta che erano entrati in quella stanza: le pareti erano nude, i mobili erano scomparsi, e anche le tende erano state strappate via dalle finestre. Solo dei riquadri di colore più chiaro sulle pareti indicavano i punti in cui stavano appesi i quadri di sua madre. Come in un sogno, Clary si voltò verso la cucina. Jace la seguì con gli occhi socchiusi.
Anche la cucina era vuota, erano scomparsi anche il frigorifero, le sedie, il tavolo. I pensili erano aperti, e gli scaffali deserti le ricordavano una filastrocca di quando era piccola. Si schiarì la gola. «Cosa se ne fanno i demoni del nostro forno a microonde?» chiese.
Jace scosse il capo, la bocca che si ripiegava agli angoli. «Non lo so, ma non sento presenze demoniache. Direi che se ne sono andati da un pezzo.»
Clary si guardò attorno ancora una volta. Qualcuno aveva pulito anche le macchie di tabasco, notò distrattamente.
«Sei soddisfatta?» chiese Jace. «Non c'è niente, qui.»
Lei scosse il capo. «Voglio vedere la mia stanza.»
Lui la guardò come per dirle qualcosa, ma ci ripensò. «Se non puoi farne a meno» disse facendosi scivolare in tasca la spada angelica.
La luce in corridoio era saltata, ma Clary non ne aveva bisogno per orientarsi in casa sua. Con Jace alle calcagna trovò la porta della sua camera da letto e allungò una mano verso la maniglia. Era fredda, tanto fredda da far quasi male, come toccare un ghiacciolo a mani nude. Vide Jace che le scoccava una rapida occhiata, ma Clary stava già girando la maniglia, o almeno ci stava provando. Si mosse lentamente, quasi come se fosse incollata, come se dall'altra parte fosse avvolta in qualcosa di gelatinoso e sciropposo...
La porta esplose verso l'esterno e la fece schizzare via. Clary volò attraverso il corridoio, andò a sbattere contro la parete e rotolò a terra. Mentre si rimetteva in ginocchio, sentiva nelle orecchie un ronzio sordo.
Jace, appiattito contro il muro, si stava rovistando in tasca, il volto una maschera di sorpresa. Sopra di lui incombeva un uomo enorme, come il gigante di una favola. Era largo come una quercia e in una mano mastodontica e bianca come quella di un cadavere stringeva una grande ascia. La sua pelle grigiastra era coperta di stracci luridi e laceri e i suoi capelli erano una specie di groviglio impastato di terra. Puzzava di sudore putrido e carne marcia. Clary fu contenta di non poterne vedere il volto: la schiena era già più che sufficiente.
Jace aveva in mano la spada angelica. La sollevò e urlò: «Sansanvi!»
Una lama scattò fuori dalla bacchetta. Clary pensò a quei vecchi film in cui c'erano bastoni da passeggio con una lama nascosta dentro. Ma non aveva mai visto una spada del genere, prima d'allora: trasparente come vetro, con l'elsa luccicante, incredibilmente affilata, e lunga quasi come l'avambraccio di Jace. Il ragazzo tirò una sciabolata e colpì il braccio del gigante, che arretrò con un urlo.
Jace si voltò di scatto e corse verso Clary. La prese per un braccio, la sollevò in piedi e la spinse davanti a sé lungo il corridoio. Clary sentiva quella cosa che li inseguiva: i suoi passi sembravano prodotti da blocchi di piombo gettati sul pavimento, ma erano anche veloci.
Schizzarono nell'ingresso e poi sul pianerottolo. Jace si voltò a chiudere la porta. Clary sentì il clic della serratura automatica e tirò un sospiro di sollievo. La porta tremò sui cardini quando un colpo tremendo la investì da dentro l'appartamento. Clary arretrò verso le scale. Jace la guardò. Aveva gli occhi illuminati da un'esaltazione folle. «Scendi di sotto! Esci da...»
Un altro colpo, più forte del primo. Questa volta i cardini cedettero e la porta volò via: avrebbe colpito Jace se questi non si fosse mosso tanto velocemente che Clary riuscì a malapena a vederlo. All'improvviso era sulle scale, la spada che gli ardeva in mano come una stella caduta. Clary si rese conto di essersi rannicchiata in un angolo del pianerottolo, incapace di muoversi. Vide Jace che la guardava e le urlava qualcosa, ma non riuscì a sentirlo per il ruggito della creatura gigantesca che era schizzata fuori dalla porta sfondata e si dirigeva dritta verso di lui. La ragazza si appiattì contro la parete mentre la creatura le passava davanti lasciandosi dietro un'ondata di calore e fetore... e la sua ascia stava volando, sibilando sopra di lei e fendendo l'aria, per colpire la testa di Jace. Lui si abbassò e l'arma andò a conficcarsi nella ringhiera.
Jace rise. Quella risata parve far infuriare la creatura, che abbandonò l'ascia e si lanciò verso di lui con gli enormi pugni sollevati. Jace fece ruotare la spada angelica, compiendo un arco perfetto e affondando la lama fino all'elsa nella spalla del gigante. Per un istante la creatura restò ferma, barcollando leggermente. Poi si tuffò in avanti, le mani tese e pronte ad afferrare l'avversario. Jace si spostò di lato velocemente, ma non abbastanza: l'enorme mano lo afferrò, mentre il gigante cadeva a terra, trascinandolo con sé. Jace lanciò un urlo, poi vi fu una serie di colpi sordi, e infine... il silenzio.
Clary si rialzò in piedi e corse verso il piano di sotto. Jace era disteso ai piedi delle scale, il braccio piegato sotto di sé in una posizione innaturale. Il gigante era caduto sopra le sue gambe, con l'elsa della spada di Jace che gli usciva dalla schiena. Non era morto, ma si muoveva appena, e dalla sua bocca usciva una schiuma sanguinolenta. Ora Clary poteva vederlo in faccia: il suo volto era bianchissimo, simile a carta, attraversato da una ragnatela nera di cicatrici orribili che ne nascondevano quasi completamente i tratti. Le sue orbite erano pozzi rossi e suppuranti. Lottando contro i conati di vomito, Clary scese le scale, passò sopra il gigante che si contorceva e si inginocchiò accanto a Jace.
Era immobile. Gli appoggiò una mano sulla spalla e sentì che aveva la camicia intrisa di sangue. Era suo o del gigante? «Jace?» Il ragazzo aprì gli occhi. «È morto?» «Quasi» disse Clary tetra.
«Diavolo.» Fece una smorfia. «Le mie gambe...»
«Stai fermo.» Clary girò attorno alla sua testa, gli mise le mani sotto le braccia e tirò. Jace grugnì per il dolore e le sue gambe scivolarono da sotto la carcassa tremante della creatura. Clary lo lasciò andare e lui si rimise faticosamente in piedi, il braccio stretto al petto. Clary si alzò. «Come va il braccio?»
«Rotto» tagliò corto lui. «Mi puoi infilare una mano in tasca?»
Clary esitò un po' e poi annuì. «Quale?»
«Quella interna della giacca. A destra. Prendi una spada angelica e dammela.» Restò immobile, mentre lei gli infilava nervosamente le dita nella tasca. Era così vicina che riusciva a sentire il suo odore: sapeva di sudore, di sapone e di ragazzo. Il suo alito le faceva il solletico alla nuca. Le dita di Clary si chiusero su una bacchetta. La tirò fuori senza guardarlo.
«Grazie» disse Jace. Sfiorò lievemente la bacchetta con le dita prima di evocarla: «Sanvi!» Come prima, la bacchetta si trasformò in una spada dall'aria estremamente pericolosa, il cui bagliore illuminò il volto di Jace.

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