Il piacere che può darmi

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Arrivai alla giornata dello spettacolo di beneficenza in una discreta condizione fisica. J mi era stata di sostegno nel riprendere gli allenamenti, e fortunatamente i miei muscoli conservavano una buona memoria. Le coreografie aeree con i tessuti furono quelle più complesse da recuperare: avevo perso forza e tonicità nelle braccia e dovetti stringere i denti e cercare di sfruttare il più possibile la muscolatura addominale e dorsale per sopperire a quelle mancanze.

Il mio corpo era comunque in condizioni migliori della mia testa.

Faticavo a concentrarmi e a mantenere un equilibrio emotivo decente e la mia incapacità di riconoscerne il motivo era continua causa di frustrazione.

Lucas si stava riprendendo bene e, seppur con mancanza di entusiasmo, aveva iniziato a frequentare la sua nuova classe. Detestava il cibo della mensa e non faceva che ripetere quanto fosse noioso e faticoso seguire le lezioni. Nonostante questo era anche più diligente del fratello nel preparare lo zaino e nell'eseguire i compiti.

Ale sembrava aver deciso che non ricordarmi continuamente le mie mancanze poteva essere una buona strategia per riconquistarmi. Mantenemmo il nostro consueto ritmo nella gestione dei bambini e del lavoro: i bambini di norma una settimana stavano con me e una con lui per la notte, se possibile si trascorreva il weekend insieme e nel pomeriggio ci gestivamo di volta in volta cercando di conciliare i suoi turni lavorativi con gli sport di Mattia e Lucas incrociandoli con le mie esigenze professionali che erano comunque molto flessibili in termini di orari. Non era semplice, ma in quei due anni avevamo trovato una sorta di equilibrio.

Non avevo motivo di sentirmi frustrata e inconcludente. Il ricovero di Lucas era stato senza dubbio un forte innesco di stress e preoccupazione, l'incombere dell'autunno giocava un altro ruolo forse non del tutto secondario, ma a distanza di quasi due settimane dalla dimissione di mio figlio non avevo ancora ripreso a sorridere con sincerità.

Non provavo la consueta soddisfazione sul lavoro, e dopo aver messo a letto i bambini, ogni sera, cominciavo a percepire una pesante sensazione di vuoto.

Se avessi avuto il coraggio di ammettere che ero tormentata dal rimpianto, forse avrei sofferto meno. Parlarne con J sarebbe stata una dose di antidolorifico efficace, e magari mi avrebbe spinta a cercare una soluzione al problema.

Ma scelsi di vestire i panni della madre stanca che cerca di gestire nel migliore dei modi la depressione post traumatica. Decisi che era più semplice convincersi che quello che era accaduto a Lucas mi aveva segnata profondamente e che mi serviva tempo per tornare a vedere la luce del sole. Ed era vero, in fondo. Ma non era l'unica verità.

Anche quello che non era accaduto mi tormentava.

In realtà ero bravissima a non palarne, ma la mia caparbia volontà di non affrontare l'argomento con il resto dell'umanità si scontrava con l'impietosa capacità del mio cervello di dare vita a una serie di trip mentali il cui unico protagonista era Marco Mancini.

Il post-it con il suo numero di cellulare si era evoluto in qualcosa di più durevole e potenzialmente eterno: lo avevo salvato in rubrica.

Avevo sbirciato la sua foto profilo, più volte tentata di scrivergli qualcosa. Ma cosa avrei potuto scrivere?

Salve Doc, mio figlio sta benissimo ma io sto di merda. Sa, il suo muro di indifferenza mi ha infastidita e arrapata allo stesso tempo.

Non senza vergogna, avevo cercato anche il suo profilo facebook, trovandolo. Ovviamente aveva impostato la privacy e non c'era proprio un tubo da vedere a parte la stessa foto profilo di whatsapp.

Avrei potuto chiedergli l'amicizia, ma la sola idea mi faceva sentire una sfigata immatura.

In conclusione, stavo invecchiando male e in fretta.

La sindrome dell'eroeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora