Quando l'autrice non sa se farli litigare o scop@re (di nuovo)

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E la mattina seguente non la trovai accanto a me. Cercai indizi della sua presenza nella camera, senza trovarli.

Mi alzai dal letto stravolto, mi infilai dentro un paio di pantaloni Adidas e, ancora scalzo, scesi di sotto sperando di trovarla, temendo di averla persa. Di nuovo.

Ecco, ci sono alcune schegge di memoria che riguardano Maia e che spero mi possano seguire fino alla tomba.

Quella volta nel parcheggio dell'ospedale l'anno prima, ad esempio.

L'avevo riconosciuta anche da dietro, perché chi se lo scorda un culo come il suo? Ma la sua postura tradiva un disagio profondo, e ricordo perfettamente il suo viso troppo pallido e troppo magro sul quale gli occhi parevano fanali impolverati.

Il suo era uno sguardo che chiedeva aiuto. Lo capii subito, perché per anni avevo convissuto con gli occhi di una moglie che invece il loro bisogno di aiuto lo gridavano, e io li avevo ignorati. Non ignorai la discreta richiesta di aiuto di Maia, e Dio solo sa perché poi le offrii quel panino, consapevole che quella non era una condotta adeguata con la madre di un paziente.

E quella volta in pasticceria, prima dello spettacolo. Anche quella volta la riconobbi da dietro, senza l'ausilio del culo dato che era seduta. Fui io ad avvicinarmi al tavolo. Avrei potuto ignorarla, uscire senza palesarmi. E invece. La sua espressione sorpresa, il suo imbarazzo nel non riuscire ad articolare un saluto che ritenesse adeguato, la scoperta di poterla vedere anche alla cena che sarebbe seguita. Ricordo tutto, tutto di quella sera.

E in palestra, con Christian, anche quella volta la cercai io. La coda di cavallo, il leggins aderente, la canottiera nera, Jennyfer che richiamava la sua attenzione con un braccio.

la volta successiva, in stazione, quando mi era venuta a prendere di ritorno da Milano, infagottata come fossimo al Polo Nord.

E, infine, quella mattina, quando me la trovai seduta sul davanzale della finestra, una gamba nuda che sforava il pavimento, l'altra piegata sul ripiano, i suoi piedi nudi, i capelli raccolti in una coda sfatta, da cui erano sfuggiti un sacco di ciocche ribelli, la mia camicia addosso, allacciata senza attenzione, le maniche arrotolate. Adoravo vederla indossare qualcosa di mio, ma vidi che anche in mano aveva qualcosa di mio: una sigaretta.

Era assorta, non mi aveva sentito scendere le scale: mi concessi di riempirmi le pupille di quella istantanea stupefacente, con i primi raggi rossastri del sole che le baciavano i capelli disordinati, il fumo della sigaretta che disegnava riccioli sinuosi davanti al suo naso perfetto, una mano abbandonata in mezzo alle gambe, l'altra che sosteneva la Marlboro accanto alla bocca imbronciata.

Avrei voluto dilatare quell'attimo, ma forse lei avvertì la mia presenza, perché si girò e mi sorrise.

«Non ho uno spazzolino né della biancheria di ricambio, doc. Mi sono arrangiata con quello che ho trovato. »

Mi avvicinai e la baciai sulla tempia.

«La mia camicia ti dona, soprattutto se non la abbottoni. Ma sostituire lo spazzolino con una sigaretta non è altrettanto salutare. Da quando fumi?»

Tornò a guardare l'alba, prima di aspirare un'altra boccata.

«Ho iniziato a diciassette anni. E ho smesso prima di compierne diciotto.»

«E hai pensato di ricominciare stamattina?»

Guardò la Marlboro come se potesse suggerirle la risposta.

«Non ho pensato a niente. Le ho viste spuntare dai tuoi pantaloni mentre prendevo la camicia, e mi è venuta voglia. Tutto qui.»

Gliela sfilai dalle dita e diedi un tiro anch'io. Sentii il suo sguardo pungermi la schiena mentre mi allontanavo per spegnerla nel lavello della cucina. Tornai e la guardai senza commentare. C'era ancora molto in sospeso, Maia stava soffocando nel suo rancore evidentemente rinvigorito dall'imminente sorgere del sole. Attesi, paziente, che liberasse un po' del veleno che stava trattenendo sulla punta della lingua. Alla fine ne sputò un frammento.

La sindrome dell'eroeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora