(Maia) Ho paura

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Mi chiusi in bagno per cercare di riacquistare un aspetto decente. Marco aspettò pazientemente sul divano.

Mi ero dimenticata che sarebbe tornato quella sera da Milano. Come avevo potuto scordarlo? Forse, se lo avessi ricordato, sarei stata di buon umore, felice, e le cose non sarebbero andate così male.

Sopraggiunse un mal di testa fulminante, pulsante, insostenibile, come se non fosse bastato il mal di schiena.

In pochi minuti avevo trasformato una giornata faticosa in una giornata drammaticamente difficile.

Uscii dal bagno con lo stesso aspetto devastato di poco prima.

Vedere Marco preoccupato ad attendermi sul divano peggiorò notevolmente il mio stato d'animo, e non seppi spiegarmi il perché.

- Vai a casa, Marco- gli dissi. Non era una domanda. Avevo bisogno di stare da sola. E attendere che la notte si portasse via un po' di quelle sensazioni che mi facevano pulsare la testa.

- Non ti lascio da sola. -

- Non sono malata. -

- Non importa. -

Si alzò dal divano con il chiaro intento di abbracciarmi e io scansai quel contatto intimo che mi avrebbe mandata in pezzi.

- Per favore, vai a casa. Lasciami da sola per un po'. -

Ero così disfatta da non aver nemmeno la forza di provare il profondo senso di colpa che sarebbe stato educato provare in quel frangente.

- Sono venuto perché ero preoccupato per te. Non volevo metterti a disagio. -

E così il senso di colpa si prese Marco. Mi sentii ancora peggio. Ma che razza di persona stavo diventando?

- Per quale motivo eri preoccupato per me? -

- Sono ore che cerco di chiamarti, Maia. Ho chiesto notizie anche a Jennyfer. Non hai risposto neanche a lei...-

Scossi la testa, confusa.

- Il cellulare non ha mai squillato, sono sicura. Ora avviso J che è tutto a posto...-

- L'ho avvisata io, mentre eri in bagno. Forse hai lasciato il cellulare silenzioso. -

Mi guardai intorno, per verificarlo, pur sapendo che di solito l'udito supersonico dei miei figli avvertirebbe la vibrazione del cellulare anche durante un bombardamento.

Fu in quel momento che il sospetto si insinuò in me: non ricordavo di aver visto il cellulare per tutto il pomeriggio, né a casa di Jennyfer, né a casa mia.

Presi la borsa dell'allenamento e la svuotai per terra, lasciando che il contenuto si sparpagliasse disordinatamente sul pavimento.

Mi inginocchiai spostando svogliatamente gli abiti sudati e gli asciugamani, ben sapendo che non avrei trovato quello che cercavo.

- Non c'è -conclusi, rassegnata e frustrata.

- In macchina? -chiese Marco.

- In palestra. L'ho lasciato in palestra, Marco. -

Non avevo una linea fissa, né un altro cellulare. Insomma, ero isolata dal mondo.

- Andiamo a prenderlo - mi disse. Guardai l'ora sul contapassi che avevo al polso. La palestra chiudeva alle dieci di sera, e non erano ancora le otto. Feci mente locale. Ero perfettamente in grado di guidare.

- Vado io. Direi che hai viaggiato abbastanza per oggi. -

Cercai di non guardarlo. Non sapevo cosa avrei trovato nei suoi occhi, né come avrei reagito nel scoprirlo.

La sindrome dell'eroeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora