(Maia) Whitney Houghston non puzzava di vomito

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Non lo sentii aprire la porta di casa, né entrare in bagno. Non sentivo niente perché nella testa mi ronzava uno sciame di api incazzate con le mestruazioni.

Mi resi conto del suo arrivo quando appoggiò le sue mani sulle mie braccia, arrendevolmente abbandonate lungo i bordi del water, dove avevo appoggiato anche la faccia.

Mi staccò dal porto sicuro di porcellana e mi fece approdare in un porto ben più accogliente: il suo abbraccio.

Aprii gli occhi quel tanto che bastava per rassicurarlo sul fatto che non ero passata a miglior vita né svenuta. Poi ripiombai nel buio nel quale ronzavano le api, dietro le palpebre. Mi preoccupai solo di stringergli una mano, perché di tenere gli occhi aperti non se ne parlava. In quel momento, quella situazione era già migliorativa rispetto a qualche istante prima e mi sarei accontentata di restare così, immobile a fare i conti con le api in sua compagnia.

Marco non era di quel parere.

- Maia! -

Ripeté il mio nome almeno tre volte, e io lo sentii tutte e tre le volte, ma non avevo proprio voglia di parlare: mi faceva male la gola, bruciava come l'inferno.

Il mio chirurgo, però, non era incline alla pietà.

- Devo sapere quando è stata l'ultima volta che hai vomitato. Maia! -

Sospirai, rassegnata, quando avvertii il suo tocco sul viso. Un tocco tutt'altro che affettuoso.

- Sono stanca -

- Quando hai vomitato l'ultima volta? - mi ripeté.

- Non so, un po'. Da quando mi hai chiamata solo sforzi. -

Sentii qualcosa di umido e a suo modo confortante tamponarmi la fronte e la bocca. Mi resi conto di avere sete. Una sete mai sperimentata prima, una sete impellente e vorace. Primitiva, quasi. Aprii gli occhi per afferrare la fonte di quel nettare prezioso ma Marco, con sofferta decisione, mi allontanò l'asciugamano bagnato dalle labbra.

- Non puoi bere, ancora. -

Ricordo che avrei voluto disperarmi, ma che mi stupii nel constatare che non ne avevo la forza. Mi abbandonai sul petto di Marco e lasciai che mi tamponasse il viso.

Dovevo essere in condizioni pietose. A un certo punto mi resi conto che mi stava parlando, perché mi scosse leggermente e avvertii il suono della sua voce ovattato dal ronzio delle api. Non capii nulla a parte la parola "antiemetico".

Intuii il significato della sua richiesta e annuii. Ma non feci nulla, per agevolare il compito di Marco. Non sapevo nemmeno cosa avrei potuto fare.

Lo seguii con lo sguardo mentre allungava una mano verso una borsa sportiva appoggiata accanto a noi. Ne tirò fiori una siringa e una piccola fiala.

Persi ogni interesse in quei gesti e lasciai che gli eventi prendessero la piega che Marco ritenne più opportuna. Non ricordo nemmeno di aver avvertito la siringa forarmi la natica.

Ricordo però che da lì a poco lo stomaco smise di attorcigliarsi su stesso, e a torturarmi rimase solo una sete primordiale.

- Ti porto a letto, Maia -

- Sul divano -replicai.

- Sul letto. -

- Sul divano. -

Sentii Marco sospirare, frustrato.

- Non voglio sporcare il letto di vomito - spiegai, grattugiando l'esofago con le parole.

- Se vomiti dopo una fiala di antiemetico ti porto al pronto soccorso. -

Mi parve ragionevole. Ma avevo deciso.

- Divano -sentenziai.

- E divano sia. -

Drizzai la schiena per agevolare Marco. Si alzò ma subito tornò a chinarsi, con la chiara intenzione di raccogliermi da terra come si fa con i cuccioli bisognosi d'affetto. O con le cacche espulse dai cuccioli bisognosi d'affetto.

- Ce la faccio - lo rassicurai.

- Sì, come no. -

Ovviamente le ginocchia mi cedettero prima ancora di aver drizzato le gambe. Marco evitò il mio schianto sul pavimento e mi prese in braccio.

Pensai a Kevin Kostner e Whitney Houghston in Guardia del corpo. Com'è che la scena nel mio bagno non risultava altrettanto figa e romantica?

Forse perché io puzzavo di vomito.

Marco mi adagiò sul divano e sparì per qualche istante per poi tornare con un asciugamano umido e una bacinella che conteneva due dita d'acqua. Si sedette per terra accanto a me.

- Dottore, mi dica cosa devo fare per mettere a tacere il raduno di maracas che mi sta devastando il cervello. -

Marco mi tamponò di nuovo la bocca con l'asciugamano e il sollievo durò giusto il tempo necessario a rendersi conto che l'impossibilità di succhiare ogni goccia d'acqua da quella spugna era la peggiore tortura cui sottoporre un essere umano assetato.

- Sei disidratata, ma è meglio aspettare ancora un po' prima di bere. Poi passerà anche il mal di testa. -

Decisi che non avrei più parlato: era come limonare con un cactus. Avevo la lingua grossa, le labbra secche, la gola che sembrava sanguinare.

Mi rassegnai alla condizione e quell'arrendevolezza mi consentì di addormentarmi.



La sindrome dell'eroeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora