(Maia) L'autrice ha ritenuto fosse carino farli litigare un po'

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Nessuno degli uomini (adulti) della mia vita si aspettava la reazione che, in quel periodo, ebbi nei confronti delle loro azioni.

Marco, dopo la festa, si era aspettato che andassi a casa sua: amici come prima, pace fatta, tarallucci e vino. Se lo aspettavano anche Jennyfer e Christian.

In fondo, me l'ero aspettata anche io, quando gli avevo infilato la lingua in bocca con piacere. Molto piacere.

Ma quando era giunto il momento dei saluti, dopo la torta, dopo i regali, dopo l'alcol, dopo i baci e le congratulazioni, mi era salito un certo sconforto.

Certe cose riemergono come i cadaveri, se non sono ben ancorate al fondale.

« A presto, Marco » lo avevo salutato, e non so se quelle parole ferirono di più lui o me. Lasciarmi quell'uomo alle spalle ancora una volta mi aveva dilaniato. Vedere la dolorosa frustrazione della circostanza prendere forma nella sua espressione mi aveva colpito come uno schiaffo.

Quasi fuggii dal pianerottolo di Christian, lasciandomi dietro lo sgomento di tutti.

La sera me ne scusai con J, via whatsapp.

Lei mi rispose in modo estremamente criptico:


Domani vengo da te.

Porto Bianca.


Senza un orario prestabilito, senza chiedere il permesso. Perché tra noi funzionava così da sempre e per sempre sarebbe stato così. Anche quando avremmo preferito di no. Quando avremmo preferito stare sole. Ma sola, quando hai amiche così, non puoi stare. Nemmeno se sei convinta sia la cosa giusta.

E poi c'era Ale.

Anche lui aveva tratto conclusioni affrettate. Se ne stava seduto al tavolo della mia cucina, all'indomani della festa, scandagliando con la sguardo il mio atteggiamento, cercando di decifrare il cambiamento, forse impercettibile, ma che colse.

Ma non era spiazzato, solo incuriosito.

Ad averlo spiazzato era stata la mia reazione all'abbandono di Marco, mesi prima.

Il mio vuoto cosmico, la mia indolenza nei suoi confronti.

Aveva sicuramente previsto una rabbia cieca, e sperato in un confortevole ritorno al tetto (non più) coniugale. Non ottenne nulla di tutto ciò. Anzi, non ottenne nulla, e basta. Per sei mesi avevo accolto la sua presenza nella mia vita come si fa con gli imprevisti: accettandolo, anche se mi urtava il sistema nervoso. Avevo bisogno di lui per i bambini. E anche i bambini avevano bisogno del loro papà.

Si era accontentato, però. Gli bastava sapermi lontano da braccia diverse dalle sue, forse.

« Ti senti bene? Vuoi che li riporti da me? » mi chiese, riferendosi ai nostri bambini.

Che proposta idiota. I bambini erano la mia unica certezza, l'unica presenza con cui riempivo le mie giornate senza starci male.

« No. Puoi andare ( a farti fottere, stronzo). »

Ale si alzò quasi circospetto. Mi chiesi se sarebbe stato in grado di uscire da casa mia senza complicare le cose.

« C'è qualcosa che devi dirmi? Qualcosa che dovrei sapere? »

Gli gettai un sorriso carico di disprezzo.

« No. Che sei una merda te l'ho già detto tempo fa. »

Incassò quasi senza reagire. Forse quasi soddisfatto nel vedere la mia indifferenza trasformarsi in rabbia. Forse, nel suo cervello da stronzo, era uno dei passaggi indispensabili per trasformare una ex moglie in una (di nuovo) moglie. Forse, forse, forse. Chissà quante ipotesi stava vagliando. Impiegò più tempo di quanto mi ero aspettata, per capire quale dei suoi forse era più probabile.

La sindrome dell'eroeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora