- Capitolo Quarantatré -

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Reyns venne sbattuto in cella immediatamente

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Reyns venne sbattuto in cella immediatamente. Venne privato del Ciondolo dell'Aquila, e lasciato in quella cella fredda, angusta e muschiosa. Una panca di legno sarebbe dovuta essere il suo letto, e una ciotola di metallo il suo piatto. A rinchiuderlo le sbarre di ferro che davano sul corridoio e quelle che lo separavano dall'altra cella, due muri ricoperti di muschio, e su uno di essi una finestrella, chiusa da altre inferriate.

Forse in preda alla disperazione o alla follia, Reyns provò con tutte le sue forze a scuoterle, piegarle o sconficcarle – sembravano arrugginite, dopotutto. Tuttavia, ciò che ottenne fu di venire deriso dalla guardia, e delle mani sanguinanti.

Le catene appese al muro lo facevano preoccupare. Inoltre, sul pavimento sporco, vi erano quelle che avevano tutta l'aria di essere macchie di sangue rappreso.

Gli fu presto chiaro che doveva uscire di lì, ma anche che non aveva mezzi per farlo.

Poteva solo parlare, mentire, cercare di convincere o imbrogliare. Ma non si sarebbe mai ridotto a pregare. Tantomeno a pregare Tizho.

«Che è successo? I due innamorati hanno deciso di darsi il cambio?» cominciò a punzecchiarlo il medico, appena arrivato, notando con gioia maligna a chi la principessa aveva ceduto il posto, «Sai qual è l'unico modo di uscire da una di queste celle, Reyns?» gli chiese, poi.

Il ragazzo provò un misto di rabbia, rassegnazione, odio, tristezza – tutte quelle emozioni lo travolsero, ma fu in grado di trattenere le lacrime.

«Lo so.» riuscì a dire, senza che il tremolare della sua voce fosse troppo evidente, e si voltò a guardare negli occhi quel pazzo, quell'essere viscido che si faceva passare per un uomo ed era pure considerato un dottore.

«Ah, davvero? E allora perché non lo dici ad alta voce?» lo sfidò, «Perché non riveli a tutti noi che cosa è successo alla principessa Aera, dato che non è più qui? Che c'è? Non ne hai il coraggio?»

Nella mente di Reyns, gli insulti si accumulavano, si accavallavano, si sovrapponevano. Rimase zitto, e lo fissò, con odio che straripava dalla sua anima e dalle sue iridi amaranto, solo perché era indeciso su come rivolgersi a quell'essere spregevole.

«Lo immaginavo.» continuò Tizho, come se non avesse minimamente sentito il peso di quello sguardo tanto ostile, «È morta.» rispose alla sua stessa domanda, freddo, «E tu sei il prossimo, qualunque cosa accada.»

«Non è così.» si oppose lui, sibilando tra i denti.

Era fermamente convinto che le cose sarebbero potute cambiare in meglio, per lui – dopotutto, difficilmente sarebbero potute andare peggio – ma non se la sentiva di aggiungere nulla a ciò che aveva detto. Tizho non avrebbe comunque capito.

«E come no?» si stupì il medico, «Dopotutto, se non sarà la Lefsan a ucciderti, morirai a causa di qualche infezione.»

Fece cenno al profondo taglio sulla gamba sinistra del ragazzo – il Ciondolo dell'Aquila che stava indossando quando aveva subito il colpo aveva in parte alleviato il dolore, ma la fitta persisteva, e senza nemmeno acqua per pulire la ferita, le sue condizioni sarebbero solo che peggiorate.

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