Chapter seventy one

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"Ti ho detto che non mi devi toccare, cazzo!" sbraitai contro Selene spintonandola all'indietro. Se già il fatto che mi fosse venuta a cercare di proposito alla festa mi aveva infastidito, allora, in quel momento, dovevo essere davvero fuori di me. "Io sono molto meglio di quella sciacquetta, come fai a non rendertene conto?" anche lei alzò il tono della voce e, subito dopo, sentii gli occhi di alcune persone su di noi. "Non azzardarti. Lei vale mille te, anzi, vale talmente tanto che non potrei mai compararla a nessuno perché nessuno è abbastanza degno di essere messo a confronto con lei" la mia voce si fece bassa e roca. Le ringhiai contro. "Quella puttanella ha fatto di tutto per separarci, ma ora avrò la mia rivincita". Gli occhi di Selene guardarono per un millesimo di secondo dietro di me, poi le sue labbra si appiccicarono alle mie. Tutto successe troppo in fretta. La collera prese possesso del mio corpo. Uno spintone ci separò non appena la mia mente riuscì a reagire e la mia mano prese velocità per andare a stamparsi sulla sua guancia. "Non ti avvicinare mai più a me e guai se ti avvicinerai a Mia". I miei pugni si serrarono, le braccia stese lungo i fianchi. Selene mi diede una spallata e l'ultimo sguardo che mi inviò fu un sorrisetto maligno che accompagnò a un occhiolino. Mi voltai verso il muro esterno della villa e, preso dalla rabbia, gli diedi un colpo con il pugno. All'improvviso il rumore stridulo dei freni di un'auto e un tonfo sordo ad alcuni metri da me mi riportarono alla realtà. Confuso, mi voltai nella direzione dalla quale provenne lo schianto e, per qualche secondo, la paura mi immobilizzò. Lo stridore delle ruote dell'auto in fuga mi annodò lo stomaco. Quel codardo era sfrecciato via, incurante di ciò che avesse fatto.

Delle urla seguirono l'accaduto e un gruppo di persone si fiondò in strada. Senza pensarci un minuto di più, raggiunsi la piccola folla immobile accalcata vicino al cancello. Fra uno spintone e l'altro, mi ritrovai di fronte al corpo malconcio steso a terra della ragazza che era stata investita. Una pozza di sangue le circondava la testa. I capelli zuppi di quella sostanza melmosa e scura mi fecero rabbrividire, poi, appena il mio sguardo scese sul resto del corpo voltato di spalle, mi sentii morire. Non mi sarei mai dimenticato un solo millimetro di quella ragazza. "Non può essere. Non puoi essere tu" dissi ad alta voce sentendo su di me gli occhi delle persone che continuavano ad arrivare. "N-no. Non puoi essere tu". Fui capace di dire ancora una volta, mentre un dolore atroce prese a divorarmi. Corsi fino al corpo privo di vita. Mi accasciai al suo fianco per poterlo sollevare e sperai come mai avevo fatto in vita mia di essermi sbagliato. Non sarebbe dovuta essere lei, non sarebbe dovuta essere la mia Mia. Delle pesanti lacrime mi bagnarono gli occhi offuscandoli, probabilmente come protezione psicologica per evitare di veder andarsene via la persona che avevo amato di più in tutta la mia esistenza. Sfregai le palpebre più e più volte con il dorso della mia mano destra, mentre, con il braccio sinistro, tentai di sollevarle dolcemente la testa. "Mia. Mia. Ti prego, svegliati". Una voce angosciata e singhiozzante, una voce che non avevo mai sentito uscire dal mio corpo, le parlò. "Amore mio, svegliati. Ti prego. Ho bisogno di te" continuai sentendo la mia gola bruciare come l'inferno. Le mie lacrime bagnarono il suo volto candido sporcato dal sangue. Con la mano destra presi il suo viso e lo accarezzai piano cullandola come una bambina, la mia bambina. "Quanto cazzo ci mette l'ambulanza?" urlai ringhiando alle persone dietro di me che, inermi, non seppero come aiutarmi. "Amore, ci sono io qui con te. Svegliati. Fai uno sforzo. So che fa male, ma non mi lasciare. Non mi abbandonare, ti prego". Dissi tutto d'un fiato sperando di rivedere ancora una volta i suoi occhi, i suoi meravigliosi occhi, aprirsi e perdersi nei miei. In quell'istante sentii il rumore della ghiaia sotto al peso di tante persone che corsero nella nostra direzione. Urla e pianti disperati cominciarono a martellarmi le orecchie, ma, come se fossi stato trasportato in un'altra dimensione, non riuscii a farci caso. A un tratto sentii strattonarmi da dietro, ma non mi voltai nemmeno per un secondo. Io sarei stato con l'amore della mia vita, nessuno mi avrebbe più separato da lei. Intorno a noi si formò una cerchia di persone, una cerchia di amici disperati quanto il sottoscritto. "Mia, ce la farai. Devi farcela. Devi farlo per me, hai capito?" le chiesi scrollandola lievemente. Passò un lasso di tempo indecifrabile per tutti noi, poi, finalmente, arrivò l'ambulanza a sirene spiegate. "Sono il suo ragazzo, fatemi salire" il mio viso si deformò dalla rabbia non appena i medici mi dissero che, non essendo un parente, non avrei potuto raggiungere l'ospedale con lei. "E' grave, cazzo! Se morirà, vi verrò a cercare uno per uno!" urlai contro a quella massa di idioti, ma non fu abbastanza per far cambiar loro d'idea. Lasciai allontanare la vettura nel buio di quella notte che avrei preferito dimenticare per sempre. Chris e gli altri mi strinsero in un abbraccio dal quale sarei voluto scappare per poter inseguire Mia. Il cuore martellò talmente forte nel mio petto che, a un certo punto, non lo sentii più. Mi sciolsi da quell'abbraccio per arrivare alla mia auto e raggiungere l'ambulanza. "Guido io" mi disse autorevole Chris con gli occhi in fiamme. Mi fidavo ciecamente di lui, in cuor mio sapevo che lasciargli il controllo dell'auto sarebbe stata la cosa giusta. Un tempo che sembrò interminabile ci separò dall'ospedale, poi, quando arrivammo, le infermiere ci avvisarono che Mia era stata ricoverata nel reparto di terapia intensiva. Le sue condizioni erano ancora sconosciute.

Passarono sei ore e trentaquattro minuti prima che il chirurgo uscisse per informarci sulla sua situazione. Pochi minuti dopo il mio arrivo, misi affiancarono, distrutti, i suoi genitori che avevo avvisato durante la corsa contro il tempo verso l'ospedale e tutto il resto del gruppo che, ancora sconvolto dall'accaduto, arrivò in sala d'aspetto ansimante e disperato.

"Lei è un parente della ragazza?" mi chiese con tono di sufficienza il medico che, se mi avesse trattato così un'altra volta, avrei preso a pugni in faccia. "Sono tutti parenti" un sibilo lieve provenne dalla bocca della madre che, subito dopo, cominciò a singhiozzare accovacciata fra le braccia del marito. I nostri amici si avvicinarono cautamente all'uomo dai capelli grigi, poi, tutti insieme, ascoltammo la diagnosi. "L'abbiamo dovuta indurre a un coma farmacologico per ridurre l'edema encefalico troppo esteso. In questo modo, abbiamo ridotto il rischio di morte per la ragazza. Data l'eccessiva perdita di sangue, non diminuiremo l'apporto di trasfusioni per le prossime tre ore durante le quali la terremo sotto continua osservazione. L'operazione sembra essere andata bene, ma l'abbiamo dovuta intubare per ovvie ragioni". Il chirurgo dallo sguardo stanco accennò un sorriso "Avete domande?" chiese. Nessuno rispose, gli sguardi si abbassarono per guardare il pavimento biancastro. "Quando potremo vederla?" domandai io fissandolo con sguardo duro "Non in questo momento. Le visite sono ridotte a un massimo di pochi minuti per persona e solo i parenti stretti potranno accedere alla sua stanza" rispose come un centralino, essenzialmente e in modo sgarbato. A Mia un atteggiamento del genere non sarebbe andato a genio, anzi, forse si sarebbe addirittura messa a litigare per i corridoi dell'ospedale. In quell'istante sorrisi quasi involontariamente. "Noi siamo i genitori, pertanto ci gestiremo le varie rotazioni, non abbiamo intenzione di abbandonarla" disse il padre prima di congedarlo.

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