Chapter seventy three

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Dopo le "buone" notizie riguardanti la salute Mia, dissi agli altri di tornare a casa per riposarsi, d'altronde erano quasi le otto della mattina. Non appena salutai tutti, mi sedetti in sala d'aspetto di fianco ai suoi genitori. Sua mamma mi abbracciò con tutta la forza che ebbe in corpo, espirando profondamente per scacciare le malefiche lacrime che minacciarono di scendere lungo il suo viso. "Grazie". La voce profonda e rotta del padre per poco non mi spezzò il cuore. Per la prima volta quell'uomo tutto d'un pezzo mi abbracciò. "Io non ho fatto niente. Non ho fatto niente. Lei potrebbe morire e io non ho fatto altro se non disperarmi e aspettare che qualcuno la salvasse" gli risposi abbassando lo sguardo sul pavimento. La rabbia mi fece ribollire il sangue nelle vene, i miei occhi si inumidirono di nuovo cominciando a bruciare più che mai. "Se non ci fossi stato tu, a quest'ora forse nostra figlia non si troverebbe lì" continuò lui facendo cenno con la testa verso la porta che ci separava dal reparto cercando di rassicurarmi. Rimasi zitto. "Nessuno l'ha notata dirigersi verso la strada, poi l'incidente" raccontai loro ciò che mi era stato riferito dal gruppo dei nostri amici che aveva domandato alle persone presenti alla festa come fossero andate le cose. Selene comparve nella mia mente e, con lei, lo stridore che l'auto produsse nella fuga. Mi sentivo colpevole. Colpevole per l'incidente nel quale era stata coinvolta Mia. Se solo mi fossi reso conto prima di ciò che stava accadendo, se solo non avessi dato retta a quella stronza. Mi maledissi per non averla mandata al diavolo non appena mi si presentò davanti alla festa. Mi maledissi per non averla mandata al diavolo, invece di uscire dalla villa perché aveva cominciato a sbraitare come chi sa cosa. Mi maledissi per non aver capito prima che quella ragazza era, in realtà, una psicopatica di prim'ordine. Quei ricordi non mi abbandonarono più. Un maligno vortice di pensieri, come maligna era l'artefice di questi, minacciò di farmi impazzire, ma, nonostante tutto, non proferii parola sull'accaduto con i genitori di Mia. Come avrei mai potuto farlo? Come sarei riuscito a spiegare loro l'intera storia? In quel momento desiderai solamente di poter parlare con la mia migliore amica e con nessun altro, tanto grande e forte stava diventando il demone che aveva cominciato a logorarmi dentro. Un mostro chiamato di nome "senso di colpa" e di cognome "rancore".

Mille volte ancoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora