7 (parte prima)

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Leif Blutstad, o Leif il Marcio come lo conoscevano tutti per la sua assoluta mancanza di scrupoli, se ne stava seduto die-tro il bancone. Aveva un monocolo poggiato sull'occhio buono e un anello stretto fra le dita. Di tanto in tanto si lasciava andare a qualche borbottio, rigirandosi un anellino così piccolo che a lasciarlo da qualche parte c'era il rischio che una ventata se lo portasse via.

Il suo giudizio finale, tuttavia, fu positivo. Aprì un cassetto e lo fece sparire, avendo poi l'accortezza di chiuderlo con un paio di energiche mandate. Nel nascondere la chiave in una tasca inter-na, alzò infine gli occhi sul garzone che spazzava il pavimento con aria svogliata. Fu troppo.

«Se non è di troppo disturbo, che ne dici di dare anche una lavata per terra?».

Il ragazzo sollevò gli occhi quel tanto che bastava per mostrare che lo aveva sentito. Poi tornò sulle assi del pavimento, un'espres-sione assente disegnata sul viso.

«Mi domando che diavolo ti tengo a fare con me! Sei capace solo di mangiare e sognare a occhi aperti. Questa città sta andando in malora e io farei meglio a risparmiare quel poco che ho per la vecchiaia, invece di fare la carità a un idiota come te!».

Il garzone non rispose. Leif giurò lo stesso, però, di avergli visto il volto colorarsi appena, sotto gli occhi. Si domandò se fosse per quel motivo che teneva la testa bassa, quasi infossata nelle spalle, ma non trovò risposta. Con la sua consueta flemma, il ragazzo svanì nel retrobottega. Ne riemerse pochi secondi dopo con un secchio e uno straccio lerci.

«Che stai facendo?!». Leif era esasperato. «L-l-lavo come... come mi hai dett...».

«Lavi?! Con quel panno sudicio? Tanto varrebbe andare fuori, ri-empire il secchio fino all'orlo di merda e buttarmela sul pavimen-to! Ma tanto a te che importa? Mica è tua questa bottega, mica sei tu che accogli qui i clienti!».

Il garzone si accartocciò come se volesse nascondere la fronte fra le spalle. Poi raccolse lo straccio e scomparve di nuovo.

Leif sospirò. Gli faceva comodo avere una mano in bottega, so-prattutto perché gli evitava i compiti più noiosi o quelli più pesan-ti. Ma non c'era giorno che non se ne pentisse. Si domandava se non era meglio sbatterlo fuori a calci in culo e prendere qualcuno di più sveglio. Ma poi si rendeva conto che, data la natura dei suoi traffici, avere alle dipendenze un tipo troppo brillante poteva rivelarsi dannoso per la sua incolumità, prima ancora che per i suoi affari.

Nel vederlo tornare, tuttavia, non riuscì a trattenere un nuovo moto di insoddisfazione. Inspirò pronto a tempestarlo di insulti, ma alla fine desistette. Con quello lì non sarebbe servito a niente. Il garzone cominciò a lavare senza essersi accorto di nulla.

Leif pensò che era tardi e che voleva andarsene a dormire. Casa sua era al piano di sopra e lui agognava il momento in cui si sa-rebbe infilato sotto le coperte, al riparo dal gelo di una città che sembrava odiarlo più di quanto odiasse la Morte nera.

Scostò lo sgabello e le zampe strusciarono sul pavimento, grac-chiando il loro disappunto.

«Bah, basta così. Vattene, devo chiudere. Domani però ti voglio qua all'alba. Se tardi, puoi anche cominciare a cercarti un altro lavoro. Tanto c'è di sicuro la fila per accaparrarsi uno schiavo ritardato».

Il ragazzo annuì quattro o cinque volte, senza alzare lo sguardo. Leif aggirò il bancone con passi strascicati, accompagnato dal tin-tinnare dell'enorme mazzo di chiavi che aveva con sé. Si fermò quasi di fronte allo schiavo.

«Beh, che aspetti?! Vattene, ho detto, devo chiudere!». «P-p-posso... posso dormire qua?».

Con il monocolo che gli penzolava su un lato del petto come una medaglia immeritata, Leif corrugò la fronte. Era certo di aver ca-pito male. «Che vorresti fare?».

«I-i-io... f-f-fa freddo fuori... posso d-d-dormire sul pavimento?». Leif roteò gli occhi. Non era la prima volta che glielo chiedeva. Il ragazzo non aveva né una famiglia a cui tornare, né un posto dove stare. Ma niente di tutto ciò era un suo problema. Non si fidava di lui e saperlo chiuso nella sua bottega, con libero accesso alla sua merce, non l'aiutava a tranquillizzarsi. Gli articoli più preziosi erano nascosti in casa e gli altri erano al sicuro in cassetti chiusi a chiave. Ma, con una notte intera a disposizione, perfino uno schiavo ritardato sarebbe riuscito a forzarne un paio.

Sollevò l'indice con gesto intimidatorio e riempì il petto d'aria. La porta della bottega si aprì, prima che potesse dare sfogo a tutta la sua ira.

Entrò una figura, anticipata da una ventata d'aria gelida che sape-va di morte e putrefazione. Pochi fiocchi di neve turbinarono sul-la soglia. Rabbrividiva battendo i piedi, decorando il pavimento con alcuni grumi fangosi; scosse la testa per cacciar via qualche fiocco che gli ingrigiva anzitempo i capelli e, infine, avanzò verso il bancone lasciandosi dietro una scia di orme.

Il garzone osservò le impronte, ma l'espressione sul suo viso non mutò. Bagnò invece lo straccio e ricominciò a pulire.

«Non è un po' tardi per far visita ai vecchi amici, Shree?», si limitò a dire Leif.

«Pensavo non ci fosse orario per i buoni affari. Ma se mi sono sbagliata me ne vado».

«Ah, Valissa è piena di gente pronta a sganciare scudi sonanti per la tua refurtiva».

«Non cambi mai, vero? Ti è sempre piaciuto fare il prepotente». «Io?», cercò di assumere un'aria innocente.

L'altra non sembrò cascare nel tranello. «Continua così e me ne vado davvero. Il che sarebbe disdicevole per i tuoi affari, ho qual-cosa di molto interessante con me».

«Shree Hildwike che ha qualcosa di interessante? E domani che succederà, ci sveglieremo col sole? L'ultima volta ti sei presentata con una mannaia da cucina arrugginita e... cos'era l'altra cosa? Ah sì, un bracciale di cuoio da bracconiere. Come se fosse rimasto qualche animale su cui fare bracconaggio».

«Eppure, se ben ricordo, hai preso mannaia e bracciale».

Leif si strinse nelle spalle e sbuffò dal naso una sorta di risata. «Devo pur aiutare la gente di questa città ad andare avanti».

«O a finire ancora più nel baratro?». «Così mi ferisci...».

«Stronzate».

Leif le regalò un nuovo sorriso. «Allora, che cosa posso fare per te, stavolta?».

La ragazza infilò la mano in una tasca e posò qualcosa sul banco-ne. Lui socchiuse gli occhi in due strettissime fessure. Riconobbe un anello, brillare alla luce soffusa della lampada. Non disse nulla. Dopo aver dato una veloce strofinata al monocolo sulla manica lercia, se lo portò all'occhio sano. L'altro gli era stato mangiato dalla Morte nera.

Afferrò l'anello e lo osservò a lungo.

«Credo sia di bronzo, niente male, anche se ammetto che dal-la tua pomposa presentazione chissà che mi aspettavo. Ti posso dare mezzo scudo d'argento. Prendere o lasc...».

«Aspetta. Questo è solo l'inizio».

Senza togliersi il monocolo, Leif sollevò la testa e puntò lo sguar-do su Shree, osservandola attraverso la lente rigata. Era una bel-la ragazza, nonostante il dito di sporcizia che la ricopriva. Capelli rossi, occhi verdi e due tette belle sode, anche sotto i vestiti lerci. Era magra, troppo; ma del resto chi non lo era in un mondo in cui solo i sacerdoti potevano permettersi due pasti al giorno e, per tutti gli altri, solo fame e privazioni? Se si fosse messa a fare la puttana, forse, anche lei si sarebbe riempita la pancia; di ecclesiastici poco inclini al celibato ce n'erano a dozzine. Ma invece quella stupida si ostinava a vivere di espedienti. E, per quanto magnanimo, Leif non faceva la carità a nessuno. Neppure a una con due tette come quelle.

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