Capitolo Uno (Parte Prima)

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Eckhard scorse i resti di Valissa nell'istante in cui gli zoccoli di Blake si impantanarono. In basso, una miscela di neve lorda ed escrementi creava un pantano nauseante. Sopra di lui il cielo aveva il colore dell'acciaio e la stessa durezza; perfino i lampi sembravano i bagliori di una lama impegnata in un combattimento.

Smontò di sella con un grugnito e si inginocchiò. Una zaffata fetida lo costrinse a voltare la testa di lato. Non c'erano dubbi, Valissa cominciava in quel punto. Sputò e squadrò in un misto di disgusto e rassegnazione la manciata di casupole che si reggevano in piedi a stento, il muro diroccato che un tempo doveva aver circondato l'intera città e le macerie di una fortezza che dominava l'intero agglomerato.

La Morte nera aveva sterminato l'umanità. E i pochissimi scampati al contagio, forse immuni, forse solo in attesa del loro momento, passavano la maggior parte del tempo a invidiare i cadaveri. Nergal, però, non aveva abbandonato i suoi. Chi credeva davvero poteva aspirare alla salvezza. Dapprima in questo mondo, poi nell'altro. In attesa della ricompensa divina, intanto, la gente continuava a massacrarsi per un tozzo di pane. Si avviò in città tutt'altro che convinto, trascinandosi dietro un riluttante Blake. L'odore acre gli bruciava le narici, mentre al di là del battere della pioggia tutto era silenzio. Notò che le finestre erano sprangate e le strade deserte.

In compenso, i morti abbondavano. E il tanfo era insopportabile. Gli sembrò di riconoscere individui di tutte le età spogliati di ogni avere e di ogni indumento. I corpi, nudi e simili a cataste di carne frollata, mostravano il rossore dei bubboni e quello delle pustole.

Svoltò un angolo e intravide la sagoma di un uomo. Se ne stava poggiato a un muro, le braccia incrociate sul petto e un'aria truce disegnata a fatica sul volto. Quando vide Eckhard, mosse un passo in avanti e per un attimo sembrò indeciso se andargli incontro o meno. Poi rinunciò e tornò sui suoi passi. La vita non valeva niente, ma farsi ammazzare non avrebbe contribuito a migliorarla.

All'angolo opposto, scorse una seconda figura. Una donna se ne stava seminuda sotto la pioggia, i gomiti poggiati a uno scalino e la testa ciondoloni sul petto. Le passò accanto e le lanciò uno sguardo veloce. Lei ricambiò alzandosi. Non fu un'azione facile, il corpo scheletrico non sembrava capace di sostenere nemmeno se stesso. Si muoveva incerta, un seno quasi del tutto scoperto; l'altro lo sarebbe stato di lì a breve. La pioggia le scendeva sul viso come se avesse la capacità di modellarlo; la bocca era aperta in quello che non sembrava mai essere stato un sorriso.

«Ti... ti va di... farmi compagnia?», balbettò.

Il cavaliere scosse la testa e proseguì.

«Avanti, sono... sono brava, cosa credi?».

Si fermò e la guardò. «Credo che tu non abbia nemmeno la forza di reggerti in piedi».

La donna sembrò sul punto di reagire, forse perfino con violenza.

Le mancarono però sia il coraggio sia le energie. Chinò la testa rassegnata. Poi tornò a sollevarla con un'espressione più mite sul volto, quasi supplichevole.

«Dammi una moneta... non mangio da giorni».

«Quell'uomo all'angolo te la toglierebbe nel giro di due minuti. Va' per la tua strada».

«E tu va' all'inferno...».

Eckhard sospirò, mentre la donna si voltava. Notò che aveva braccia così sottili che avrebbe potuto spezzarle con due dita e una pelle così bianca da sembrare trasparente. Allungò una mano e le afferrò un polso. Lei impiegò un tempo interminabile a voltarsi. E quando infine tornò a guardarlo, il suo volto non tradì alcuna espressione. Sembrava persa in un limbo che solo lei riusciva a percepire.

La lasciò andare. Frugò nella bisaccia e tirò fuori qualcosa che un tempo era stato un pezzo di pane, ma che adesso non ne aveva più né l'aspetto, né l'odore e forse nemmeno la consistenza. Al vedere il cibo, però, la donna spalancò gli occhi. Allungò una mano e afferrò il tozzo di pane.

Eckhard si aspettava che lo mangiasse con voracità, quasi ingozzandosi.

Invece lo morse con delicatezza e un pizzico di paura; sembrava quasi aver dimenticato che cosa significasse mangiare.

Strappava morsi piccolissimi, lasciando che la pioggia ammorbidisse il pane raffermo e forse le nascondesse le lacrime.

Si accorse che l'uomo sull'altro lato della strada aveva cominciato a muoversi. Le occhiate che lanciava ora a lui, ora alla donna, ora al pezzo di pane lo convinsero ad attendere che lei finisse di mangiare.

Ci volle un tempo ben più lungo di quanto si fosse aspettato e alla fine la donna si limitò a chinare la testa, a voltarsi e a tornare al suo posto senza degnarlo di un saluto.

A Eckhard andò bene così.

Oltrepassare la piazza lo catapultò di nuovo in una serie di strade deserte. Nei vicoli più stretti l'odore era insopportabile e la mota rendeva il cammino quasi impossibile. Ogni tanto scorgeva un'imposta aprirsi a sufficienza per gettare un'occhiata all'esterno e poi richiudersi subito dopo, sbattendo senza alcuna grazia. Arrivò a destinazione pochi minuti dopo.

Legò Blake e si diresse alla porta. Poggiò le mani sulle ante e aprì.

L'ambiente che gli si parò davanti non valeva nemmeno parte della fatica fatta per raggiungerlo; era sporco e infestato dalle mosche.

Contò cinque avventori, un oste e uno schiavo-garzone.

Fu proprio quest'ultimo ad andargli incontro. «Se-seguitemi... vi accompagno a un tavolo».

Eckhard notò che il ragazzo aveva delle cicatrici sulla fronte che sembravano essersi mal rimarginate e dovevano averlo tormentato per anni, prima che l'infezione facesse il suo corso. Non ne ebbe alcuna compassione.


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