18 (parte seconda)

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Uscì, ma di Gleb non c'era traccia. Si rigettò sotto l'acqua e un attimo dopo si infilò in un'altra casa. Questa volta i cardini erano così arrugginiti che aprire la porta si rivelò impossibile. Riuscì a spostarla lo spazio sufficiente appena a infilarsi, una volta tanto contenta di essere così magra.

Con le finestre e la porta chiuse, il buio era quasi assoluto.

Di nuovo fu raggiunta da un tanfo che le mozzava il respiro, così pungente da darle la spiacevole sensazione di ingoiare pezzi di carne rancida a ogni boccata d'aria. Nonostante l'oscurità, individuò una seconda porta che sembrava dare su un'altra stanza.

Un'asse cigolò sotto il suo peso. Si immobilizzò temendo che potesse rompersi, ma il legno resse e lei fu dentro. Si infilò venendo aggredita da un odore più intenso, solo in parte mascherato dalla puzza di marciume che proveniva dal misero mobilio. Alla sua destra, scorse il profilo di un letto. Lo guardò e, come apparizioni spettrali, emersero le ossa di due figure scheletriche. Pochi e scarni brandelli di pelle erano ancora visibili; la maggior parte della carne, però, si era da tempo decomposta.

Si avvicinò al letto, mentre sotto di lei una seconda asse cigolò. I teschi erano immobili; le orbite vuote fissavano un soffitto che di lì a breve sarebbe crollato. Le braccia si stringevano a vicenda. Perfino le falangi, talmente bianche da risplendere nel buio, erano incrociate in una stretta eterna.

Restò a guardarle per un tempo indefinito, come se al posto delle ossa ci fossero ancora i volti di un uomo e di una donna che avevano deciso di affrontare insieme la morte. Vide gli occhi chiusi e i volti distesi; nessun segno della pestilenza, ma solo il colorito roseo dell'amore.

Scosse la testa e si ritrovò a fissare il biancheggiare delle ossa.

"Molto meglio così", pensò con cinismo.

Poi la notò. Sul collo di uno dei due scheletri, quello più piccolo, pendeva una collanina che sembrava avere i riflessi del rame. Dopotutto, quella non era stata una sosta inutile.

Allungò le dita e di nuovo l'asse cigolò sotto il suo peso. «SHREEE!!».

L'urlo la fece sussultare. Arretrò la mano di scatto, riconoscendo la voce di Gleb. Maledisse il suo compagno di viaggio, incerta se ignorarlo o meno. Non fosse stato per la nota di panico nella voce, avrebbe fatto finta di niente. Invece si voltò, cominciando a correre verso la porta. L'aprì a fatica e, nell'uscire dalla casa, estrasse la spada.

Immobile al centro della strada, si rese conto che non sapeva dove andare. Di Gleb non c'era traccia. Tese le orecchie, ma non udì altro che lo scrosciare dell'acqua sui tetti.

Si morse un angolo della bocca, frustrata. La nebbia era più densa, tanto che le case agli estremi della strada erano quasi del tutto svanite.

Mosse un passo e in risposta non udì altro che lo sciacquio del suo piede nel fango. Pozzanghere sempre più grosse si stavano formando non soltanto lungo la strada, ma anche sui tetti e perfino all'interno delle case. Non c'erano stati crolli, di quello ne era sicura, perché li avrebbe sentiti.

Di Gleb, però, continuava a non esserci traccia. Cosciente che lo schiavo non poteva essere sparito da solo, Shree fu attraversata dalla consapevolezza che c'era qualcun altro oltre a loro.

"Qualcuno che però non mi avrà".

Si voltò e cominciò a camminare. Dapprima i suoi passi furono lenti, ma ben presto aumentarono di ritmo. Doveva scappare il più in fretta possibile. Per lo schiavo non c'era più alcuna speranza. Ma per lei sì.

Come gli era stato insegnato molto tempo prima, la fuga era solo una ritirata un po' scomposta.

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