Eckhard era stato addestrato a sopportare qualunque privazione e ogni tipo di sofferenza. Non si lamentò quando gli legarono i polsi e non cacciò un solo lamento quando lo colpirono per il solo gusto di vederlo sanguinare. Mantenne un'espressione talmente imperturbabile, che i suoi aguzzini ne sembrarono inquietati.
Solo il sacerdote di Nergal non sembrava colpito dal suo atteggiamento. Lo fissava a qualche metro di distanza, aggrappato al suo simbolo sacro come se ne traesse un qualche genere di conforto. Il cavaliere ignorava lui, così come ignorava tutti gli altri. Teneva lo sguardo fisso sul corpo senza vita di Blake, trovando ingiusta la morte del cavallo. E, quando un paio di mosche gli si poggiarono sugli occhi, mutò per la prima volta espressione. Il sacerdote dovette rendersene conto, perché mosse un passo in avanti. Lo guardò, la testa inclinata su un lato, una mano aggrappata al bastone. «Stai per morire arso vivo e ti preoccupi del tuo cavallo?».
Eckhard non rispose. Senza alcun preavviso, un manrovescio lo raggiunse alla guancia. L'uomo che l'aveva colpito sorrise compiaciuto, mostrando gengive ingrigite dalle quali spuntavano, come fossero stati infilati a viva forza, un incisivo e un canino. Il resto dei denti doveva esserseli portati via la Morte nera.
«Non credere che questo ti faccia onore. Tutt'altro. Penso che tu sia il relitto di un tempo perduto, il prodotto di una società corrotta e depravata che ha fatto della diseguaglianza e dei privilegi il proprio simbolo. Meriti di morire molto più del tuo destriero. Peccato solo che non sarai altrettanto utile alla mia gente». L'uomo si concesse una breve pausa. Poi riprese a parlare: «Pagherai per le tue colpe. Il sacro fuoco di Nergal purificherà le tue carni». La reazione della folla fu contenuta, ma non inesistente. Lui percepì un mormorio crescente e sentì le voci farsi più eccitate. Cominciò perfino ad afferrare qualche parola come «sangue», «vendetta», «rogo»; in un caso addirittura «giustizia».
Restò impassibile, il petto in fuori quanto più le corde glielo consentivano. Fosse stato lui il carnefice, anziché la vittima, non avrebbe avuto un'espressione altrettanto serena.
Nell'arco della sua vita aveva girato il continente in lungo e in largo, aveva visitato città e villaggi e assistito coi propri occhi alla decadenza del mondo. Ma soprattutto aveva imparato a conoscere la gente. E la gente voleva il sangue. Le folle piangevano e si lamentavano, chiedevano protezione e cure dalla pestilenza, mendicavano cibo e oro. Ma la verità era che non esisteva altra moneta che accettassero con altrettanta soddisfazione del sangue, a maggior ragione quando era spillato a qualche nobile o a qualche vittima sacrificale. Il sangue era necessario per lavare le coscienze e per concedere la falsa convinzione che ancora, in quel mondo destinato alla rovina, esistesse una qualche forma di giustizia.
Lui provava pena per loro, perché credevano di fare il volere di un dio e invece lo deludevano giorno dopo giorno, contribuendo a gettare il mondo in quella spirale di decadenza dalla quale ormai non sarebbe più stato possibile tirarlo fuori.
Sollevò la testa e il volto del sacerdote fu la prima cosa che incontrò. Era a un braccio appena da lui e sorrideva soddisfatto. Quasi subito un secondo uomo si avvicinò. Teneva fra le mani una torcia e sorrideva. Anche quel sorriso mostrava più di qualche buco, mentre il suo volto era stato talmente corroso dalla malattia, da essere quasi irriconoscibile.
Il calore della torcia gli comunicò che stava per morire.
Fu una sensazione strana, perché in realtà non provò nulla. Non sentì il cuore accelerare i battiti e non cominciò a sudare. Non gli venne l'istinto di chiedere pietà e nemmeno quello di tornare con la mente al suo passato. Era tranquillo, sereno. Non aveva paura di morire per il semplice fatto che non c'era nulla di cui aver paura. La morte non era la fine. Non era neppure l'inizio. La morte era trasformazione, questo insegnava Nergal. A pensarci bene, anzi, la morte non era neppure la cosa peggiore che gli potesse capitare. Di lì a breve non ci sarebbero stati più né il freddo, né la sofferenza; via il dolore e la fame. Ancora poco, poi sarebbe stato al cospetto del suo dio e tutta la sua vita avrebbe avuto un senso. E poi, forse, dall'altra parte avrebbe incontrato di nuovo lei.
La serenità fu tanto palese sul suo volto, che il sacerdote ne sembrò infastidito. Gli si avvicinò e lo guardò con un'espressione indecifrabile.
«Devo renderti atto che il coraggio è una dote che non ti difetta», parlò con voce bassa. Fu quasi un sussurro e, al di là di loro due, nessun altro lo udì.
Eckhard non rispose.
Il sacerdote inspirò e sputò su di lui il suo fiele: «Puoi essere coraggioso quanto ti pare. Ma niente ti salverà dalla morte!». Voltandosi di scatto, l'uomo sollevò le mani al cielo.
In risposta, la folla rumoreggiò.
«Bruciamolo! Bruciamo il ricco cavaliere!», fu una voce indistinta, ma si levò chiara nel silenzio della palude.
Sangue.
La gente voleva sangue.
«Se hai un ultimo desiderio da esprimere, questo è il momento», disse il sacerdote fissandolo.
«Voglio la mia spada. Lascia che bruci con me».
Qualcuno tra la folla si alzò in piedi. Non volevano concedere nulla a chi li aveva ridotti alla fame. Il sacerdote però non era dello stesso avviso. Sollevò di nuovo la mano libera e il silenzio tornò a farsi assoluto. Mosse quindi un passo nella sua direzione e tornò a fissarlo. Eckhard trovò quello sguardo odioso. E trovò odioso dover morire bruciato, anziché con la spada in pugno, combattendo come era accaduto a suo padre e a suo nonno. Però, in un certo qual modo, pensò anche che forse morire su di un rogo era la giusta punizione per...
«Mi sembra un'ottima idea», disse il sacerdote. «La tua spada, simbolo del tuo rango e del sangue innocente che hai versato, brucerà con te».
L'uomo condì quelle parole con un sorriso più convinto. Poi tornò a voltarsi e fece un cenno a uno dei suoi. Quello si alzò e scomparve. Tornò quasi subito reggendo l'arma fra le mani. Con la coda dell'occhio, Eckhard lo vide agitarla in una sua beffarda imitazione. La folla cominciò a guaire una cupa risata. L'uomo terminò il proprio numero solo quando fu davanti al sacerdote. Si inginocchiò deferente e gli porse la spada.
L'altro la prese, sollevandola a fatica. «Davvero un gran bel pezzo d'acciaio. Sarei curioso di sapere quante vite ha stroncato».
Non rispose. Quella spada apparteneva alla famiglia Vanemburg da innumerevoli generazioni. Quando da piccolo chiedeva a suo nonno la storia di quella lama, il vecchio balbettava senza dare una vera risposta. Era antica come il nome stesso della loro famiglia. Eckhard desiderava che bruciasse, solo per evitare che finisse in altre mani che non fossero le sue.
Il sacerdote la soppesò, seguendone il filo impeccabile. Perfino lui che pure era un uomo di chiesa ne sembrò colpito. Difficile, se non impossibile, trovare ancora qualcuno in grado di creare un'arma di quel valore. La Morte nera si era portata via tutti i fabbri migliori. E con loro, i segreti della lavorazione dei metalli. Eckhard temette che l'uomo potesse tenerla per sé. Invece, con un affondo improvviso, la infilò fra le fascine ai suoi piedi.
«Ecco, ora sei stato accontentato. La tua spada brucerà con te. Spogliatelo!», ordinò infine.
Due figure gli si avvicinarono. Lui sentì un getto d'adrenalina inondargli il petto, come una scarica d'energia che però rimase inutilizzata. «Nudo sei venuto al mondo, nudo te ne andrai. Procedete!».
Il sorriso marcescente di un uomo gli si parò davanti. Eckhard lo vide estrarre un coltellaccio che poi gli infilò fra il petto e la tunica. Il rumore del tessuto che si lacerava riempì il silenzio della palude. La folla taceva, seguendo in un misto di apprensione ed eccitazione ogni singolo gesto.
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Pestilentia
FantasyUn ragazzo in fuga da qualcosa che non doveva essere liberato. È l'inizio della fine. Quattro secoli dopo, il mondo è un ammasso purulento. Una pestilenza ha spazzato via quasi ogni forma di vita, e il gelo ha stretto nella sua morsa gli ultimi supe...