29 (Parte prima)

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La sagoma segaligna di padre Jari fu investita dal freddo. Rabbrividì, stringendosi le braccia al petto e respirò l'aria gelida.

Il vento gli scompigliò i capelli e, non contento, lo schiaffeggiò. Lui reagì socchiudendo gli occhi e gettando uno sguardo pieno di sconforto a quel misero spettacolo.

La fila era così lunga che non se ne vedeva la fine. Faceva ancora più impressione, se si pensava a quanta poca gente fosse rimasta a Valissa. Quasi nessuno tra quei derelitti si reggeva ancora in piedi con le proprie forze; erano seduti nella neve putrida, oppure si aggrappavano ai bastoni come all'ultima speranza di vita. I vestiti erano ridotti a brandelli e l'odore era insopportabile.

Ai lati della fila stavano soldati macilenti. Gli sguardi truci non perdevano di vista la folla. La loro presenza era divenuta indispensabile, dopo che gli scontri si erano fatti all'ordine del giorno; c'era sempre qualcuno che perdeva la testa e cercava con la forza di entrare nel Palazzo della Fratellanza.

Padre Jari li fissò uno a uno, fin dove arrivava il suo sguardo. E quando aveva ormai perso ogni speranza, scorse il suo uomo. Fece un cenno a una delle guardie. «Portami lui».

Il soldato annuì e si allontanò, facendosi largo fra la folla. Mentre aspettava, non poté ignorare gli sguardi carichi d'odio e di rabbia che lo circondavano. Un po' erano rivolti al prescelto; ma la maggior parte erano per lui. Jari odiava quell'incombenza, la considerava la cosa peggiore del suo alto incarico. Tuttavia, era forse l'unico dei suoi mille compiti cui non si poteva sottrarre. La guardia tornò quasi subito, conducendo l'uomo che gli era stato indicato. Jari lo squadrò ancora un istante, poi se ne uscì con un laconico: «Seguimi».

Quello non replicò.

Richiudersi la porta alle spalle gli diede un senso di sollievo. Il palazzo era gelido e immerso nel buio di una sera imminente, ma almeno lo metteva al sicuro dalla folla. Inspirò a fondo l'odore di umidità del corridoio, quindi fece un cenno all'uomo che lo seguiva zoppicando. Su di lui le prime tracce della malattia erano già visibili, ma non abbondanti come nella maggior parte degli abitanti di Valissa. Forse c'era ancora speranza.

«Qual è il tuo nome?», Jari parlò senza smettere di camminare. Si muoveva a passo svelto, accompagnato dal suono lugubre della campana che chiamava alla funzione religiosa, la terza di giornata. Poco prima di uscire, aveva visto padre Oberon prepararsi. I due si erano scambiati uno sguardo d'intesa, poi l'altro si era avviato verso la chiesa e a quel compito che eseguiva ogni giorno, con una devozione ammirevole.

«Mi... mi chiamo Dhago, padre». 

«Dhago e basta?».

«Dhago Urs Ritterburg».

«Un nobile, lo immaginavo. Tu puoi mentire, ma i tuoi abiti no di certo. Quando sei stato colpito dalla malattia?».

«Circa due settimane fa».

«E da allora che cosa hai fatto?».

«Quello che fanno tutti, sono stato in fila e ho pregato».

«Bene. Sarà Nergal a decidere chi deve guarire e chi no. E i più devoti hanno sempre maggiori possibilità. Noi possiamo aiutarti, ma se non credi e non preghi, sarà tutto inutile».

«Io prego tutti i giorni, e vado sempre in chiesa». L'uomo parlò cercando di mantenere il suo passo spedito, nonostante la zoppia. «Se mi curate, giuro che pregherò il doppio, il triplo... passerò la vita a pregare!».

«Non devi convincere me, figliolo, ma Nergal».

Jari percepì un cenno affermativo da parte dell'altro. Pur non avendo alcuna intenzione di rivelarglielo, era quasi sicuro che l'uomo non avrebbe mai più riacquistato l'uso della gamba. Le loro cure potevano salvarlo, ma non potevano fare miracoli.

Quelli spettavano soltanto a Nergal.

«Quanto denaro hai con te?», Jari parlò cercando di mantenere il tono neutro.

A dispetto dell'orrore che dominava l'intera Valissa, bisognava cercare di trattare l'aspetto economico con quanto più tatto possibile. Per superare l'attimo di disagio, aumentò l'andatura. Alle sue spalle, il picchiare del bastone di Dhago si fece più frequente. «Io... io ho portato tutto quello che avevo, padre. Tutto. Lo giuro!». A quelle parole, Jari si fermò e si voltò. Poco più avanti, il corridoio terminava con una porta. Una lama di luce filtrava da sotto le due ante di legno, a decorare la polvere stantia dell'ultimo tratto di androne.

«Fammi vedere».

Dhago infilò una mano nei calzoni, all'altezza dei genitali. Jari sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla. Le dita dell'uomo riemersero e qualcosa tintinnò. Il nobile mostrò il palmo: quattro scudi d'oro, una collanina d'argento e un braccialetto di rame.

Padre Jari scosse la testa. «Non basta, mi dispiace».

Il volto di Dhago impallidì. Jari se ne accorse, nonostante il buio e la malattia che l'aveva reso uno spettro.

«Voi... voi non potete... Io... io ho strappato questa collanina dal collo di mia madre e ho tolto il bracciale al cadavere di mia figlia. Non ho altro! Ma anche questo è un piccolo tesoro, in fondo».

«Dieci pezzi d'oro è il prezzo per le nostre cure».

«Die... dieci pezzi?! Nessuno a Valissa ha così tanto oro, padre! Vi scongiuro, curatemi, giuro che avessi altro, ve lo donerei con tutto il cuore. Sono pronto a entrare al servizio di Nergal. Dopo che mi avrete aiutato, prenderò anch'io i voti. Per favore, aiutatemi».

Jari sospirò. Ogni giorno la stessa storia.

«Mi stai offrendo meno della metà del prezzo, come posso aiutarti? Le nostre sono cure costose. Se non lo fossero, non credi che aiuteremmo tutti gli abitanti di Valissa, invece di pochi prescelti? Quello che tu doni oggi, lo riceverai indietro quando sarà il tuo momento di presentarti all'Altissimo».

«Io... io lo so. La mia famiglia è in difficoltà da due generazioni: eravamo grandi feudatari, ma la Morte nera ci ha ridotti quasi alla fame. Ho perso tutti... mia madre, mio padre, mia moglie, perfino le mie due figlie!».

«E non hai voglia di tornare da loro?».

«Certo. Ma a tempo debito. Vi prego, aiutatemi».

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