"Te lo sei meritato, diavolo".
Quell'ultimo pensiero gli rimandò indietro un'immagine. Un volto di donna, bella e traslucida come una dea.
Scosse la testa e guardò il garzone. «Faccio da solo. Tu occupati del mio cavallo. È qui fuori»
Il ragazzo mugugnò un assenso poco convinto.
Eckhard non gradì e lo afferrò per un braccio. «Se ti venissero stra-ne idee, sappi che quel cavallo morde e tira calci più di qualunque puttana ti abbia partorito. E io sono ancora più scontroso».
Lo schiavo si irrigidì. Sgranò gli occhi e annuì con tanta foga che la testa sembrò sul punto di staccarsi dal collo. Non fece nulla per liberarsi dalla stretta, però, limitandosi a ritrarsi quanto più lontano poteva.
Eckhard attese ancora un istante. Poi mollò la presa e si avviò al bancone.
L'oste aveva il ventre gonfio e una serie di cicatrici sul viso. Capi-tava di rado, ma a volte succedeva che qualcuno contraesse una forma più lieve del morbo, riuscendo a guarire. Erano casi spo-radici e si diceva che quegli sfortunati sopravvissuti non fossero più gli stessi, perché la Morte nera si portava via anche una parte del cervello. Eckhard giudicò che il locandiere avesse pagato un prezzo anche più alto alla sua guarigione.
«Hai del cibo?», gli domandò.
L'uomo non rispose. Reagì invece chinandosi e afferrando qual-cosa. La mano riemerse stringendo una mannaia che calò sul bancone con un gesto quasi annoiato. L'acciaio scintillò e si piantò nel legno ammuffito.
«Non mi importa se maltratti lo schiavo e non mi importa della tua spada. Ma il cibo è poco ed è riservato a quelli che se lo pos-sono permettere. Perciò o mi fai vedere qualche moneta, oppure ti alzi e te ne vai».
Eckhard, senza fretta, mostrò un sacchetto di cuoio. Rovesciò il contenuto sul bancone, erano tre scudi di rame, tutto quello che gli rimaneva. L'altro li fece sparire con una rapidità sorprendente per un uomo così malandato e si voltò svanendo nel retrobottega.
A lui non restò che aspettare. Nell'attesa, gettò un'occhiata distrat-ta alla sala.
Del tutto disinteressate a quanto accadeva intorno a loro, due guardie mangiavano in altrettanti tavoli distinti. Portavano alle labbra cucchiaiate di una minestra acquosa che ingurgitavano con lo sguardo perso nel vuoto, le mani così tremanti che a ogni boccone la maggior parte del brodo ricadeva nella scodella. I loro volti mostravano tracce di una sofferenza che non sembrava solo fisica.
Tre derelitti, ognuno seduto a un tavolo diverso, mangiavano la stessa brodaglia sorseggiando acqua torbida. Solo uno di loro aveva della birra, ma se la teneva così vicina al viso che avrebbe potuto berla solo allungando le labbra. Per il resto se ne stavano ingobbiti sulle loro scodelle, cacciando di tanto in tanto un colpo di tosse.
«Strozzati». La voce dell'oste lo costrinse a voltarsi.
Una ciotola sbrecciata rollò sul tavolo. Eckhard vide che era piena della solita brodaglia e scorse due o tre pezzi di carne in ammollo. Preferì non indagare su quale animale, o creatura, avesse fornito l'ingrediente principale, e spostò l'attenzione al boccale di birra e alla mezza pagnotta di pane nero che completavano il pasto.
Nell'allungare la mano per afferrare il cibo, la manica gli scese scoprendogli l'avambraccio e il tatuaggio che lo decorava. L'oste se ne accorse.
Eckhard attese un commento che tuttavia non arrivò. Cominciò allora a mangiare in silenzio, cercando di non pensare al sapore del cibo. Buttò giù l'ultimo boccone, nell'istante in cui un suono riempì l'aria. Era come se fosse ovunque e in nessun luogo. Tutti, però, lo riconobbero.
Lasciò passare solo una frazione di secondo. Poi si pulì le labbra con il dorso della manica e, senza aggiungere altro, se ne andò.
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Pestilentia
FantasyUn ragazzo in fuga da qualcosa che non doveva essere liberato. È l'inizio della fine. Quattro secoli dopo, il mondo è un ammasso purulento. Una pestilenza ha spazzato via quasi ogni forma di vita, e il gelo ha stretto nella sua morsa gli ultimi supe...