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Gleb cercò tracce di Shree, ma dovette arrendersi all'evidenza di essere solo. Per quanto sforzasse la vista, non vedeva altro che un nero denso come bava; non si sarebbe stupito di udire i movimenti di creature da incubo, partorite dalla fantasia di un qualche dio vendicativo.

Con movimenti appena accennati, si mise a sedere. Il polso reagì con una fitta di dolore. Si strinse le gambe al petto, nell'istintivo gesto di occupare meno spazio possibile. Quando poi si accorse che il suo respiro affannato sovrastava perfino il battere della pioggia, si costrinse a calmarsi.

Non fu un'impresa facile. Il cuore gli batteva troppo forte e troppo veloce. Deglutì e perfino quel semplice suono gli sembrò riecheggiare, andandosi a perdere nell'oscurità che lo circondava.

Si diede dello stupido e si ripeté che non doveva fare rumore. Quella era una delle prime regole che aveva imparato quand'era ancora un bambino: se ti trovi solo, in un posto che non conosci e non puoi scappare, allora devi fare di tutto per non rivelare la tua presenza. Non bastò.

Un rumore a poca distanza gli comunicò che non era affatto solo. Chiuse gli occhi e pregò che qualunque cosa ci fosse là fuori non fiutasse il suo odore.

Non servì a nulla.

Passi strascicati si muovevano nella sua direzione, avvicinandosi incerti, ma tutt'altro che disposti a rinunciare alla loro preda. Cercò a tentoni un'arma e le dita strinsero uno dei tronchi che Shree aveva raccolto per accendere e alimentare il fuoco; quello stesso fuoco di cui ora non restava che il vago ricordo. Il ramo stretto fra le dita gli infuse una scintilla, seppur minima, di coraggio. Percepiva la corteccia spugnosa sotto i polpastrelli e avvertiva il peso del legno, in qualche modo rassicurante. Qualunque cosa ci fosse stata là fuori, un uomo o una fiera selvatica, l'avrebbe trovato pronto.

Il dolore al polso aumentò. La testa gli pulsava sotto la spinta di fiotti sempre più massicci di sangue e adrenalina. Un nuovo rumore, questa volta più vicino, lo fece sussultare. Non un fiato, però, gli uscì dalle labbra. Strinse le dita sul ramo e sollevò il braccio. Sapeva che in quell'oscurità avrebbe visto il suo aggressore solo all'ultimo istante. Si ripromise che gli sarebbe bastato.

Qualcosa si mosse nell'ombra, così vicina che Gleb ne sentiva l'odore pungente, come di selvatico, che nemmeno la pioggia riusciva a lavare. E quando infine il suo campo visivo fu animato da una sagoma scura, attaccò. Colpì, ma il suo aggressore fu più rapido ed evitò il fendente. Gleb sentì il legno colpire il terreno, seguito dallo schiocco del ramo che si spezzava. Il braccio gli vibrò per la botta, mentre lui si ritrovava a osservare il moncherino di legno, terrorizzato dal fatto di essere disarmato e in balia di un avversario più veloce di lui.

«Ma che diavolo ti è preso, stupido di uno schiavo!», Shree parlò a meno di un metro da lui, il bianco degli occhi come unica traccia della sua presenza.

Lei si chinò e gli si avvicinò così tanto che Gleb ne sentì il respiro caldo sulla pelle. Aprì la bocca per rispondere, ma non trovò nulla di intelligente da dire e allora abbassò lo sguardo imbarazzato da quella vicinanza, quasi più che dalle sue paure.

«Sei fuori di testa, idiota! È stato un caso che abbia visto quel maledetto bastone. Fossi stata un po' più distratta, mi avresti spaccato la testa!».

«Iii... io...».

«Tu sei matto, fattelo dire. Cos'è, non posso nemmeno andarmi a fare una pisciata, senza correre il rischio di essere ammazzata?». Gleb balbettò, ma dalla bocca gli uscirono solo monosillabi senza senso e il respiro condensato.

«Posso rimettermi a dormire, o pensi che ti verrà voglia di tagliarmi la gola nel sonno?».

«Mmmi... mi ero... spaventato».

«E di che cosa avevi paura? Non che fossi scappata, spero. Diluvia e non si vede niente. Per trovare un posto dove pisciare ho rischiato di ammazzarmi. La prossima volta la faccio qui, tanto non credo che né io né te potremmo puzzare di più. Così evito pure sorprese al mio ritorno».

La ladra tornò a sdraiarsi, borbottando fra le labbra tutta una serie di maledizioni, le ultime delle quali si confusero però con i primi accenni del suo russare. Gleb non riuscì invece più a prendere sonno.

L'alba lo colse nella stessa identica posizione, le gambe strette al petto, un costante tremore che gli scuoteva le membra.

*

Shree si svegliò al primo chiarore e gli lanciò un'occhiataccia. Non aveva dimenticato la disavventura notturna. Poi afferrò la capra e, senza alcuna grazia, cominciò a mungerla. Pochi minuti dopo, gli passò una scodella dentro la quale c'erano a malapena tre o quattro sorsate.

«Non guardarmi così! Le rimane pochissimo latte. Mi sa che stasera mangeremo carne di capra».

Gleb annuì, poi fissò la tazza e il suo misero contenuto. Il latte ondeggiava indolente e pensò che gli sarebbe mancato. Gli sarebbe mancata anche la capra.

Un lampo illuminò la mattina. Sussultò, mentre mandava giù l'ultimo sorso. Poi, tanto per essere sicuro, leccò l'interno della ciotola delle poche gocce rimaste aggrappate al legno.

Shree era già in piedi. Fissava il panorama, le mani poggiate ai fianchi, lo sguardo incupito. La montagna era avvolta in una nebbia così corposa, che ogni cosa sembrava svanire al suo interno. Si immerse nella bruma, portandosi dietro la capra e quel che restava del loro equipaggiamento. Un istante dopo, si fermò come ricordandosi di qualcosa.

«Come va il polso?». «Be... bbbene».

«Meglio così, perché con tutta questa nebbia non si vede granché e avrai bisogno di tutte le tue forze. Attento a dove metti i piedi, o stavolta ti lascio precipitare di sotto».

Lui annuì tre o quattro volte, poi la affiancò mentre sopra di loro la pioggia si faceva più fine.

A dispetto delle loro preoccupazioni, la discesa si rivelò tutto sommato agevole. Non era ancora buio, quando infine misero di nuovo piede su un terreno pianeggiante. Solo a quel punto la ladra emise un sospiro di difficile interpretazione. Gleb, che le era subito dietro, preferì non indagare.

«Non ha senso proseguire, tra meno di un'ora farà buio... Beh, più buio di quanto non lo sia già», gli disse. «Tanto vale trovare un posto dove accamparsi e passare la notte».

Gleb si rese conto che quando Shree parlava, non sembrava quasi mai rivolgersi a lui. Sembrava più che altro limitarsi a comunicargli decisioni già prese.

Quanto a lui, come sempre non ebbe obiezioni. Si limitò invece ad annuire e a guardarsi intorno, senza peraltro sapere cosa cercare. «Quella boscaglia mi pare il posto ideale dove passare la notte. C'è legna a sufficienza per il fuoco e i rami più bassi potrebbero tornarci utili per approntare un riparo d'emergenza».

Soddisfatta della sua strategia, Shree mosse un passo in avanti. Gleb fece per seguirla, ma qualcosa lo costrinse a fermarsi.

Nel voltarsi, riconobbe una sagoma che aveva già visto in precedenza e che tuttavia non avrebbe mai più voluto rivedere.

Aprì la bocca per richiamare l'attenzione della ragazza, ma una voce lo anticipò.

«Scommetto che quella è Bertha. E scommetto che stamattina avete fatto l'ultima colazione della vostra vita».

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