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Esco dalla mia camera e vado in soggiorno dove mio fratello è spaparanzato sul divano a fare zapping con il telecomando in mano.

«Ciao.» Mi sorride guardandomi e, poi, torna a puntare gli occhi sul vortice della televisione.

Io gli sorrido a mia volta e mi accoccolo di fianco a lui, alzando le gambe sul divano e cercando di mettermi comoda perché, appena troverò il coraggio tra le onde impazzite della paura che forma un oceano, dovrò raccontargli la mia decisione.

«Non credo di averti ringraziata abbastanza per quello che hai fatto l'altro giorno.» Mormora senza guardarmi ma abbassando leggermente il volume della tv.

Scuoto la testa. «Non preoccuparti.»

«E grazie anche per avere chiamato mamma.» Mi lancia un'occhiata.

Lo guardo strizzando le labbra e facendo spallucce. Era la cosa da fare e l'ho fatta. «A propositi di questo, Nic» mormoro iniziando a stritolarmi le mani, «io avrei deciso che è ora che io me ne vada da casa vostra.»

Nicola sposta lo sguardo dalla televisione a me e lascia cadere il telecomando sul divano.

«Perché? Guarda che non disturbi, Anita, te l'ho già detto.»

«Voi siete fin troppo gentili per dirmi la verità, ossia che sono di troppo in questa casa, soprattutto con l'arrivo della bambina.» Ammetto mettendolo di fronte alla verità che, sia io che lui, conosciamo. «È ora che io me ne vada per permettere a Chiara di stare più tranquilla e per potervi lasciare la libertà di sistemare la camera che sto usando come volete. So che quella camera sarà quella della bambina, è ora che me ne vada.»

Mio fratello si passa la lingua sulle labbra e sospira pensando alle parole che gli ho appena detto. Io lo guardo sicura della mia decisione e cerco di infondergli la mia sicurezza che spazzerà via il suo senso di colpa e il suo bisogno di proteggermi.

«E dove andrai?» Mi chiede sconsolato.

Io deglutisco. «Voglio tornare a casa mia.»

Nicola strabuzza gli occhi e irrigidisce la schiena appoggiata al divano, incredulo di aver appena sentito queste parole uscire dalla mia bocca. E, forse, sono incredula anche io di essere arrivata a questa consapevolezza: scappare da casa mia, stare lontano da mia sorella, dà potere ai miei genitori, a quelle persone che non mi vogliono per come sono, e tolgo importanza a me stessa e questo non è giusto. Devo potere avere la possibilità di spiegare a Isabella che quello che sono non è sbagliato o malato, sono esattamente come lei e provo le sue stesse cose; devo poter avere la possibilità di aprire gli occhi e la mente dei miei genitori perché io sono così e loro non possono fingere di non avermi avuta, fingere che io non sia mai esistita e che non esisto nel mio piccolo universo personale, solo perché loro sono spaventati da qualcosa che non avevano previsto e che non possono controllare. Inoltre, devo avere la possibilità di essere felice e potrò esserlo solo nel momento in cui mi accetterò e saprò di aver provato a far capire alla mia famiglia chi sono e ciò che sento realmente. Metà del lavoro l'ho fatto: io mi sono accettata e, ora, spero che lo facciano loro.

«Tornare a casa? Da mamma e papà?»

«Sì, Nic, a casa.» Confermo annuendo.

«Ma ...»

«Ho pensato che potresti aiutarmi a parlare con loro.» Ammetto. «Perché se vado da sola rischio che non mi aprano nemmeno la porta e, comunque, non mi ascolterebbero: hai visto come si è comportata mamma l'altro giorno.»

«Io ti accompagno, certo ma ...» chiede storcendo la bocca, «sei sicura di volerlo fare?»

«Sì, ho già fatto le valigie e ho sistemato la camera», deglutisco, «sono pronta.»

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