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Continuo a pensare alle parole di mia sorella e mi stanno tormentando il cervello da quando, una settimana fa, le ha sussurrate durante una notte fredda di dicembre. Forse dovrei fare qualcosa per scacciare queste api impazzite, rumorose e fastidiose. Così mi metto a sistemare la mia camera: sposto i libri, spolvero le mensole e le fotografie appese al muro, piego i vestiti e li rimetto nell'armadio e metto in lavatrice quelli sporchi. Poi prendo l'aspirapolvere, la attacco alla spina e il rumore che fa quando si accende è talmente potente da sembrare addirittura confortante perché, almeno, col rumore nelle orecchie, non sono costretta ad ascoltare i miei pensieri. Passo l'aspirapolvere addirittura sotto il letto, cosa che non faccio mai perché sono pigra e, solitamente, non mi va di chinarmi ogni volta per far sì che il braccio dell'aspirapolvere ci passi senza essere ostacolato. Questa volta, invece, mi piego e, mentre faccio andare avanti e indietro il tubo, sento qualcosa che mi blocca. Alzo il copriletto, faccio passare il braccio sul pavimento e, quando estraggo l'ostacolo, il cuore manca di un battito e cado all'indietro sul pavimento, ritrovandomi seduta a gambe incrociate e lo sguardo stranito. Tra le mani ho il libro "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare", il libro di Liv.

«Cosa ...» Non termino la domanda che, ad un tratto, le immagini di me che sto leggendo questo libro e, poi, di Isabella che entra nella stanza facendomi alzare e facendomi precipitare il libro a terra, mi passano di fronte agli occhi. Da quel giorno non ci ho più pensato e il libro è rimasto sotto al letto a impolverarsi per tutto questo tempo.

È pazzesco come sia saltato fuori ora, oggi, visto che sto cercando di cancellare la voglia che ho di chiamare Olivia per tornare ad essere, nuovamente, felice.

Inizio a sfogliarlo e mi ricordo che, quel giorno, non ho fatto in tempo a finirlo perché poi sono andata a casa di Nicola e, al ritorno, avevo altro a cui pensare.

Decido di finirlo, ho voglia di leggerlo e di arrivare fino alla fine, così mi immergo nelle pagine e, come la prima volta, divento gabbiana. Questa volta, non sono Kengah, sono Fortunata ed è arrivato il momento di imparare a volare perché mi sono resa conto di non essere un gatto ma di essere una gabbiana e, come tale, devo volare. Ma ho paura. Guardo giù dalla torre e sento un vuoto nello stomaco. Mi sembra assurdo che io debba saltare giù. E mi sembra ancora più assurdo che io abbia le capacità di spiegare le ali e salvarmi dallo schianto. Eppure lo faccio. Chiudo gli occhi e mi butto. Precipito. Sento l'aria che mi sferza il viso. Non ho il coraggio di aprire gli occhi, non voglio vedere nulla. "Vola Fortunata, vola!".

E, d'un tratto, apro le ali e, con esse, apro gli occhi e vedo il mondo dall'alto, capendo che volare è nella mia natura ed è la cosa più bella del mondo. So volare. Posso volare.

"È un segno, Anita" mi dice il cuore che scalpita.

È veramente un segno? Sì, forse. Con tutti i momenti nei quali avrebbe potuto saltare fuori, ha deciso di farlo proprio adesso, come se volesse dirmi "ehi, smettila di sprecare la tua vita: vai da lei, non aspetta altro!"

Oppure, forse, è solamente un caso e non devo decidere della mia vita in base a questo evento. Che fare?

"Vai".

E ascolto il suggerimento senza pensarci più di tanto. Seguo l'istinto perché sono stata codarda anche fin troppo a lungo. Ora basta. Ci devo provare. Devo tornare a volare.

Mi alzo dal pavimento, prendo il libro e lo pulisco bene dalla polvere; poi mi cambio i vestiti, mi pettino, mi trucco e, prima di uscire dalla camera, afferro il ciondolo a forma di gabbiano che ho appeso alla mensola, poi esco da casa prendendo le chiavi della macchina.

Guido con calma apparentemente ma, dentro di me, brucia l'inferno perché non so cosa aspettarmi da Olivia quando mi vedrà davanti alla sua porta. Tamburello le dita sul volante, sto nei limiti di velocità e, in un attimo, arrivo nel parcheggio di fronte al condominio in cui abita Olivia.

Vorrei scendere dall'auto, andare al suo campanello e suonare, ma ho paura che lei, senza avermi neppure dato il tempo di salire le scale e bussare alla sua porta, mi chiuda il citofono in faccia e mi lasci sullo zerbino fuori dal cancello.

Come se il destino volesse spingermi ad andare da Liv, di fianco alla mia macchina ne viene parcheggiata un'altra e scopro che la proprietaria dell'auto è Samantha, la vicina di casa della mia ex ragazza. Così scendo e la rincorro.

«Ehi ciao.» La saluto.

Lei si volta e un sorriso le si dipinge sul viso. «Ciao. È da un po' che non ti vedo da queste parti.»

Annuisco e cerco di nascondere la verità. «Sono stata un po' impegnata.»

«Capisco.» Annuisce anche lei. «Devi salire da Olivia?»

Mi mordo il labbro e deglutisco. Mi fa strano mentirle. «Sì.»

La ragazza prende le chiavi dalla borsetta e si dirige verso il cancellino. «Vieni, ti aspetto.»

Il cuore inizia a battere velocemente perché ho paura che lei capirà che Olivia ed io non stiamo più insieme dalla faccia che farà quando mi vedrà sulla sua porta.

«Ho dimenticato una cosa in macchina.» Mento, perché la borsa è tra le mie mani e il libro che devo dare ad Olivia è dentro ad essa. «Lasciami aperto, però, ti dispiace?»

«No, certo, ti lascio il cancellino aperto e la portineria socchiusa.» Mi dice senza il minimo sospetto che io stia mentendo. «Buona giornata e buone feste.»

La saluto, ricambio gli auguri, fingo di andare verso la macchina e, quando non la vedo più, salgo le scale con le gambe molli.

Vorrei pensare a un discorso da fare ad Olivia non appena mi vedrà, vorrei pensare a delle parole da dedicarle ma, la verità, è che il cervello è in tabula rasa e non riesco a pensare a nulla. È come se io fossi in un altro paese e cercassi di pensare in una lingua straniera.

In men che non si dica, mi ritrovo sul suo zerbino e il dito, istintivamente, si posa sul campanello. «Oddio.» Mormoro cercando di respirare profondamente.

Dall'altro lato della porta, la sento muoversi e il rumore dei suoi gesti vitali mi era mancato così tanto da farmi male.

Appena lei apre la porta, la vedo che trattiene il respiro perché non si aspettava di vedermi.

La visione dei suoi occhioni azzurri spalancati mi investe. È bella anche se è in tuta da casa, spettinata e struccata. È bella anche se ci siamo lasciate e lei ha vissuto un pezzo di vita senza di me chissà con chi e chissà facendo che cosa.

«Ciao.» Mormoro timidamente mentre mi stringo nelle spalle per cercare di occupare il minor spazio possibile.

«Ciao.» Mi saluta lei a sua volta, appoggiandosi alla porta e passandosi una mano sugli occhi e, successivamente, nei capelli.

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