introduzione

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Il mese di novembre, quell'anno, era particolarmente freddo.

Di solito odiavo il freddo, preferivo nettamente il caldo o le giornate primaverili, ma quella notte ne scoprii la sua utilità.

L'aria gelida per mia fortuna, congelava i miei innumerevoli pensieri che continuavano a vagare per la mia testa.

<<Tesoro, guardami>> Uno sconosciuto in divisa catturò il mio viso tra le sue mani grandi per accertarsi che fossi cosciente.

Me ne stavo seduta sui gradini del portico con solo una coperta addosso che qualcuno degli innumerevoli uomini presenti mi aveva posato sulle spalle.

Stavo tremando ed ero sudata, non riuscivo a parlare nonostante capissi tutto quello che succedeva intorno a me.

L'uomo, alto e con la barba aveva gli occhi lucidi e continuava ad accarezzarmi le guance come se fossi un cucciolo di cane abbandonato, in effetti, mi sentivo un po' sola.

Odiavo qualsiasi contatto umano, ma gli permisi di toccarmi perché non ero in me, ero scossa e spaventata.

<<È sotto shock, ma sta bene>> aggiunse poi girandosi verso i suoi colleghi.

Gli agenti continuavano a parlarmi, a farmi domande alle quali non riuscivo a rispondere, forse perché non riuscivo a prestarne attenzione, ero concentrata sulle luci blu e rosse delle sirene.

Lampeggiavano abbagliandomi ed io socchiudevo gli occhi a causa della loro intensità.

Ero stata io a chiamare i poliziotti, anche se avevo solo dieci anni.

All'inizio avevano pensato che si trattasse di uno scherzo, fino a quando non avevano visto con i loro occhi la situazione orribile nella quale ero capitata.

<<Cosa ti hanno fatto?>> Il poliziotto mi prese con estrema delicatezza il mento per costringermi a guardarlo ma il mio viso tornava sempre nella stessa direzione di prima.

Fissavo le autopattuglie senza pronunciare una sola parola.

Ce n'erano tre.

Accanto ad ognuna di esse vi erano due agenti radunati attorno a una chioma scura e un corpicino esile.

Si trattava di una bambina, la stessa che era con me poco prima, stava bevendo dell'acqua, i piedi nudi erano sporchi di terriccio e una coperta le copriva le forme ancora acerbe e premature.

<<Abbiamo chiamato i tuoi genitori, saranno qui a momenti>> Mi avvertì l'agente, ma nessuna emozione scalfì la mia espressione impassibile.

Non riuscivo più a sentire il cuore battere nel petto, forse non ne avevo più neanche uno, il mio corpo era vuoto, privo di un'anima.

L'uomo tentava invano di catturare la mia attenzione, ma io ero altrove.

Davvero avevano chiamato i miei genitori? Non provavo niente neanche per loro.

Non avevo voglia di correre tra le braccia di mamma, ne é di dare chissà quali spiegazioni a papà.

Loro, proprio loro non si erano mai accorti di nulla.

Mia mamma pensava che avessi bisogno di uno psicologo, spesso origliavo le sue conversazioni telefoniche con un uomo che non era papà.

Ne avevo ascoltata una quello stesso pomeriggio mentre me ne stavo accovacciata sulle scale che conducevano al piano di sopra.

Ricordavo ogni dettaglio.

Mamma camminava nervosamente avanti e indietro sui tacchi alti.

Era sempre stata una donna distinta, di gran classe, persino di casa.

let's save ourselves from this hellDove le storie prendono vita. Scoprilo ora